Veneto indeciso
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C’è un francobollo di terra nel mezzo delle Dolomiti che da solo rappresenta tutto il Veneto, si tratta di Cencenighe, 1.311 anime e neppure un candidato sindaco. Da Cencenighe a Pieve di Cadore il passo è relativamente breve ma qui almeno un candidato era stato trovato, al quale però non è bastato raggiungere la più che bulgara percentuale del 100 per cento dei voti validi per diventare sindaco: meno della metà dei suoi concittadini si sono presentati alle urne, troppo pochi, spalancando così le porte al commissario prefettizio.
Piccole storie di provincia si dirà, ma in una regione come il Veneto che è tutta una grande provincia assumono un’importanza capitale. Le elezioni comunali dello scorso 11 giugno e i successivi ballottaggi di domenica 25 hanno consegnato alla storia uno degli esiti più variegati e difficilmente classificabili degli ultimi anni, a partire dai tre capoluoghi di provincia andati al voto sino ai piccolissimi borghi alpini.
PADOVA. A Padova il grande sconfitto ha un nome e un cognome, Massimo Bitonci, passato dall’annunciare urbi et orbi una propria vittoria al primo turno al subire una sconfitta sul filo di lana, in questo simile a quella da lui stesso inferta solo tre anni prima al candidato Pd Ivo Rossi. La perdita di Padova pesa soprattutto in casa Lega, la quale tenta di scaricare sui traditori di Forza Italia la responsabilità dell’unico insuccesso direttamente collegato a un candidato del carroccio il quale sconta, per altro, l’aggravante dell’aver impostato tutta la campagna elettorale esclusivamente sui temi cari alla ditta: sicurezza, immigrazione e lotta al degrado.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]VERONA. Se a Padova si è votato un referendum su Bitonci, a Verona è toccato spartirsi la pesante eredità dell’uscente e non ricandidabile Flavio Tosi e anche in questo caso l’emorragia di affezione verso l’uomo forte è stata travolgente vedendo la fidanzata di Tosi sconfitta da una coalizione di centrodestra. «L’altra faccia di questa decadenza è l’esplodere delle civiche, che in tutti e tre i capoluoghi hanno trainato il sindaco eletto, e a Padova in particolare pure quello uscente e sconfitto. Fenomeni sicuramente interessanti, ma eterogenei, e con alto tasso di volatilità: preziosi per vincere le elezioni, meno affidabili per garantire il governo delle città per i cinque anni canonici. Padova sarà in questo senso il vero banco di prova, specie per i caratteri di novità insiti nella coalizione che ha accompagnato il Pd alla rivincita; non dimenticando peraltro l’assist fornito da Bitonci in persona, con il proprio auto-affondamento. Da lui, né prima né dopo, la pur minima autocritica, ma solo fantasmi di complotti e tradimenti; il tutto inserito in una grammatica politica che al capitolo “pronomi” si è fermato all’”io”. Facendogli fare così la fine della rana nella celebre favola di Fedro» sentenzia Francesco Jori dalle colonne del Mattino di Padova.
MIRA. Non ha pagato la strategia del candidato forte neppure a Mira, secondo comune dell’area metropolitana di Venezia di cui ci siamo già occupati in passato, che dopo la rinuncia del sindaco a 5 stelle Alvise Maniero di ricandidarsi ha visto il suo movimento arenarsi al primo turno e lasciare la sfida dei ballottaggi ad un classicissimo tandem centrosinistra – centrodestra. I motivi che hanno spinto il giovane Maniero a non proseguire con un secondo mandato sono molteplici e alcuni non ancora molto chiari, di sicuro c’è solo che nel panorama di un Veneto restio a tutto, in particolare alle novità, una figura guascona e popolare come la sua mancherà molto, tanto ai grillini che in lui avevano un riferimento, quanto ai rivali che a Mira potevano misurare le politiche grilline scevre dagli eccessi romani.
BRUGNARO. A Mira il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha tentato per la seconda volta dopo la debacle chioggiotta dello scorso anno di uscire dalla laguna e di affermarsi come fenomeno politico quantomeno provinciale senza riuscirci: ai ballottaggi di domenica 25 fra la sua candidata Antonella Trevisan e il collega del Gazzettino Marco Dori in quota Pd, il secondo ha inferto un raggelante 61 per cento a 39 alla povera Trevisan la quale ha passato le ultime settimane di campagna elettorale a difendersi anche da una raffica di scoop giornalistici che ne hanno messo in discussione curriculum e competenze.
Ormai chiuso nella sua Venezia il sindaco Brugnaro medita l’ennesimo tentativo di riscossa, per la seconda volta non gli è bastato clonare la sua formula veneziana per garantirgli il successo: un candidato della tanto osannata società civile, una lista civica rigorosamente fuxia con i partiti del centro destra relegati a comprimari e una martellante campagna promozionale per affermarsi se non nei cuori quantomeno nelle pance degli elettori a ritmo di cene, aperitivi e fritture miste. Per salvare il soldato Brugnaro a questo punto servirebbe una svolta radicale che ne sconvolgesse totalmente la strategia finora intrapresa, iniziando a muoversi più come sindaco metropolitano e meno come sindaco di Venezia, andando insomma ad avvicinare per vie traverse ma più praticabili le tante comunità locali che si trova comunque a coordinare.
ZAIA. Se quella di Brugnaro è una corsa in salita, non va meglio a Luca Zaia il quale ha iniziato proprio con quest’ultima tornata elettorale la lunga maratona che lo porterà al referendum consultivo sull’autonomia della Regione Veneto del prossimo 22 ottobre. Zaia, da politico di lungo corso, sa che i voti nelle urne si pesano oltre a contarsi, ed è consapevole di avere un solo grande nemico: l’astensione. Che valore avrebbe il già debole referendum lombardoveneto se alle urne si replicasse l’affluenza del ballottaggio padovano a quota 57 per cento? Persa anche l’ultima roccaforte e con essa la visibilità di un sindaco come Bitonci, come saprà convincere i veneti a recarsi alle urne?
CLIMA VENETO. Il Veneto ha paura, paura di svegliarsi povero e solo, di veder sciogliersi come neve al sole quel mito del nord-est che nei distretti e nella prossimità ha fondato la sua religione e nei capannoni ha trovato le sue chiese. Ora però che gli opifici si svuotano, le zone artigianali si desertificano al ritmo di 12 mila capannoni sfitti nel Nord-est nel 2016 e le banche del territorio si ristrutturano, si fondono e si svendono a partire dalle piccole cooperative fino alle grandi Veneto Banca e Popolare di Vicenza, qualcosa in quel sogno di operosità diffusa sembra essersi incrinato rischiando di pregiudicarne anche la ripresa economica. Zaia, che conosce i suoi amministrati, sa che quando un veneto ha paura tende a chiudersi a riccio nella propria casa prima ancora che nella comunità, quando ha paura e quando sente le proprie istanze non rappresentate da alcuno.
«Partiti: da sostantivo a participio passato» chiosa ancora Francesco Jori, la sua è una sentenza senza appello per una classe dirigente ridotta a manica a vento, gonfiata e sgonfiata da un civismo troppo spesso di facciata e dall’assoluta incapacità di leggere e interpretare gli umori delle mille comunità che compongono il mosaico veneto. Riuscirà Zaia a battere l’astensionismo? Giordani a Padova saprà essere quel “modello nazionale” vaticinato persino da un Renzi a corto di successi elettorali? E Brugnaro riuscirà a smarcarsi dai gattopardi che ancora tentano di imbrigliarne la dirompente spinta?
Troppo presto per rispondere, com’è troppo presto per sapere se il giovane ex sindaco di Mira, astro nascente del Movimento 5 Stelle, ambisca a più alti incarichi come già in passato avevamo supposto, di sicuro c’è che il Veneto è di fronte alla più clamorosa partita della sua storia recente e nessuno dei giocatori ha in mano le carte che possano garantirgli la sicurezza della vittoria.
Foto Ansa
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