Tremende bazzecole
Un cardiochirurgo senza cuore. O della necessità del contrappasso
Pubblichiamo la rubrica di Annalisa Teggi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Gli stereotipi crollano di fronte a un uomo in carne e ossa. Banalmente, mi sarei aspettata che un cardiochirurgo fosse un tipo cordiale, cioè di cuore; ma era solo un mio stereotipo mentale assai poco interessante. È stato invece interessante incrociare la concretissima voce di un dottore, proprio perché la sua figura ha scombinato le mie aspettative: è stato intervistato durante un telegiornale per documentare i progressi nell’ambito della cardiochirurgia infantile e più la giornalista mostrava entusiasmo riguardo al fatto che lui aveva dato un cuore nuovo a neonati malati, più lui pareva schivo – per non dire scocciato – e rispondeva a monosillabi.
È stata un’apparizione breve. Non ricordo il nome di quest’uomo, non ricordo altro che le sue braccia fieramente conserte, gli occhi accigliati, la voce reticente. Era tutto tranne che cordiale, tanto da far pensare che quell’intervista fosse per lui una punizione più che un’occasione gratificante. Forse per questo, ho pensato ai dannati di Dante che subiscono la pena del contrappasso: nell’aldilà i golosi mangiano fango, gli oratori fraudolenti sono costretti al silenzio, eccetera. E nell’aldiqua ecco un cardiochirurgo senza cuore.
[pubblicita_articolo]Forse quel dottore era ligio a una severa etica professionale, o forse era di indole riservata, o forse era di malumore. Però poteva anche essere un uomo in lotta. Insomma, mi è passata per la testa l’ipotesi che dietro quella ritrosia ci fosse la battaglia di chi tenta di far bene il suo mestiere, tenendosi come fedele amico il contrappasso; cioè educandosi al contrario di quel che il proprio egocentrismo lo indurrebbe a fare.
E chi più di un cardiochirurgo può cadere nel delirio di onnipotenza del dottor Frankenstein? Mio padre, che reagisce alla paura facendo il simpaticone, disse al suo dottore prima di entrare in sala operatoria: «Lei ha in mano il mio cuore e le giuro che non avrei mai immaginato di dirlo a un uomo». Tenere in mano il cuore di un altro uomo; non c’è immagine più simbolica di quanto sia drammaticamente difficile capire il nostro ruolo, senza lasciarci fuorviare da derive egocentriche. Forse, allora, il contrappasso è un alleato utile, come lo è lo scalpello per lo scultore: è necessario per tirar fuori da un involucro granitico una forma umana.
È sempre e in ogni caso una lotta mettere in un angolo l’ego per far saltare fuori l’io, qualunque mestiere si faccia e qualunque carattere si abbia. Ma quando ciò accade, cioè quando sentiamo che è il nostro io a essere presente e all’opera, allora la vera pienezza gratificante è esserci e basta, ed essere partecipi del mondo. Ogni evento è una prova in più di questa nostra educazione quotidiana e perenne: andare a stanare il grumo più fecondo di noi, che sta sotto e dietro le nostre molte maschere spavalde. Talvolta non basta un’intera vita a educarci.
Così, per un attimo – solo usando l’immaginazione, senza presunzioni teologiche – ho pensato all’Inferno come all’ultimo avamposto di Dio… come fosse l’extrema ratio dell’amore, in cui il Padre si prende il tempo dell’eternità per non mollare la presa neanche con «la perduta gente», e scalpella il cuore fiero o indurito, toglie chili e chili di egocentrismo a suon di contrappassi, per poter stanare un io – anche dietro un dannato.
Foto dannati all’inferno (bassorilievo medievale) da Shutterstock
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