Che cosa succede in Medio Oriente dopo l’uccisione del capo politico di Hamas

Di Giancarlo Giojelli
01 Agosto 2024
Eliminato Ismail Haniyeh a Teheran, Israele aspetta la risposta iraniana. Hezbollah promette sfracelli a nord, i terroristi a Gaza vogliono vendetta, gli Stati Uniti sono pronti a intervenire, ogni mediazione sembra impossibile
Proteste Iran uccisione Haniyeh
Proteste a Teheran contro Israele dopo l'uccisione del capo politico di Hamas, Ismael Haniyeh (foto Ansa)

I rapporti dei servizi segreti di mezzo mondo dicevano che fosse in procinto di traslocare da Doha, la capitale del Qatar dove non si sentiva più così protetto per stabilirsi a Bagdad. Con frequenti viaggi in Turchia, soprattutto a Istanbul, dove aveva lucrosi affari e un enorme patrimonio personale, partecipava a incontri di alto livello con le leadership finanziarie e politiche del mondo arabo e asiatico: si sentiva insomma al sicuro.
La sicurezza di Ismail Haniyeh, capo politico della milizia di Hamas, è stata frantumata in Iran, polverizzato da un missile teleguidato da Israele, con il quale la sorte gli aveva dato appuntamento a Teheran, dove era arrivato per partecipare all’insediamento del nuovo presidente iraniano Masoud Pezeshkian.

Un gesto accuratamente mirato, una eliminazione annunciata da tempo ma che si carica di significati e le cui conseguenze sono imprevedibili. Dipenderà molto dalla risposta di Teheran se l’uccisione del capo di Hamas (l’uomo che diede il via al massacro del 7 ottobre e ha guidato e ispirato i lanci di missili che durano da vent’anni contro Israele) si rivelerà un nuovo passo in avanti verso la guerra totale o se, al contrario, si è aperta pur tra il rullo dei tamburi di guerra e la propaganda che invoca vendetta, la possibilità di una trattativa dopo la eliminazione del bersaglio grosso, il trofeo che Netanyahu doveva esibire dopo quasi dieci mesi di guerra.

La morte di Haniyeh e i passi verso la guerra totale

Di sicuro Haniyeh doveva sentirsi ben protetto a Teheran, nonostante il giorno precedente Sayyed Fouad Shkr, il numero due di Hezbollah, la milizia sciita filo iraniana libanese, era stato ucciso a Beirut da un altro missile – una palese sfida all’accordo non scritto per cui la guerra tra Hezbollah e Israele sul confine nord dello Stato Ebraico debba essere contenuta nell’arco di cinque-dieci chilometri. Ma i passi verso la guerra totale sono accelerati dalle reciproche vendette. La rappresaglia ora non è più misurata né contenuta e nemmeno proporzionale. Mentre Hezbollah martellava il nord della Galilea, Israele ha risposto in rapida sequenza eliminando uno dei capi militari di Hamas a Gaza, Mohammad Deif, un leader di primo piano del Partito di Dio libanese, Fouad Shkr, e infine l’obiettivo numero uno, il gran capo di Hamas, Haniyeh.

Importanti e significativi anche i luoghi dove sono stati uccisi. Deif a Gaza, Shkr a Beirut, Haniyeh a Teheran. Shkr è stato annientato da un razzo nella capitale del Libano, una zona in teoria fuori dal raggio di azione dei raid secondo i taciti accordi tra le intelligence dei vari paesi in gioco per contenere e limitare la guerra. Il colpo è arrivato nel quartiere generale della milizia sciita, ad Haret Hreik, periferia sud, a cinque chilometri dall’aeroporto.

La risposta non “proporzionale” di Israele

Hezbollah ha cominciato a spostare nuove armi e missili a lunga gittata verso Sud: promette sfracelli nella risposta all’attacco israeliano che a sua volta era la risposta al massacro dei dodici ragazzini drusi uccisi da Hezbollah con un razzo lanciato su un campo di calcio nel Golan. Anche questa volta attacchi e risposte sia da parte di Israele sia da parte libanese, secondo quanto trapelato da un incontro tra servizi americani e iraniani, avrebbero dovuto essere “proporzionali” e soprattutto entro il raggio tacitamente concordato. Non è stato così. Né a Beirut né, soprattutto, a Teheran.

Colpite due capitali, Beirut e Teheran. Colpiti due capi al massimo livello la cui biografia personale è un trentennale intreccio di attacchi, guerre e terrorismo. Umiliata la promessa iraniana di garantire la incolumità dei suoi alleati, soprattutto nei suoi confini. Umiliata la rete di protezione che il cosiddetto “asse della resistenza” ( Hezbollah, Hamas, Houthi, milizie filo iraniane in Siria e Iraq) guidato da Teheran aveva steso intorno ai suoi avamposti, in una regione dove ci sono eserciti, basi, flotte armate con armi nucleari di tutte le grandi potenze che si fronteggiano, finora limitando i combattimenti ad attori, cioè milizie, locali.

La contraerea israeliana non può fermare tutti i missili

Ora tutto è cambiato, ma era già cambiato il 7 ottobre. Israele sa che deve affrontare una reazione dura quanto imprevedibile, su diversi fronti. E la pur fortissima difesa contraerea di cui dispone non può sopportare il lancio contemporaneo di migliaia di missili dai quattro punti cardinali. Quattromila missili lanciati in pochi minuti possono essere intercettati al novanta per cento. Sembra un margine di sicurezza alto, ma non è così: significa che possono contemporaneamente cadere su Israele almeno quaranta missili destinati a perforare la cupola protettiva di Iron Dome.

E sono centinaia di migliaia i razzi e missili in possesso di Hezbollah, Hamas e Houthi, per non parlare dell’Iran. Una offensiva che può saturare in poco tempo la capacità di difesa. Gli ultimi attacchi Houthi (un razzo è arrivato fino a Tel Aviv uccidendo un uomo) sono stati in gran parte fermati dall’aviazione americana e saudita. Prova del fatto che, anche prima dell’uccisione di Haniyeh, si era a un passo dal coinvolgimento diretto delle grandi potenze.

Se ora l’Iran interviene direttamente, e non con lanci più simbolici che effettivi, le conseguenze sono purtroppo facilmente prevedibili. Lo hanno detto chiaramente Russia, Cina e anche la Turchia (che ospita le basi della Nato e fa parte della alleanza atlantica). Il Qatar ha subito dichiarato che sono state «colpite le speranze di pace» (quelle che restavano dopo l’uccisione dei bambini nel Golan). Ora più che mai Israele è in allarme, vengono esaminati i filmati ripresi dai droni di Hezbollah che sono riusciti a sorvolare tutte le zone strategiche, dal confine fino ai cantieri di Haifa. Gli Stati Uniti, attraverso il segretario alla difesa Lloyd Austin promettono che difenderanno Israele e il suo diritto ad esistere.

Il lascito di Haniyeh ai terroristi di Gaza

Il premier ad interim libanese Najib Miqati sta incontrando ambasciatori e rappresentanti di tutti i paesi e mobilitando la diplomazia: sa che il Libano, nella guerra totale che si profila, verrà devastato, comunque vada. Si parla del “dopo” ma gli ultimi eventi confondono, non chiariscono le prospettive, e non è chiaro nemmeno cosa significhi il “dopo”. Le trattative per un rilascio degli ostaggi a Gaza sono bloccate, Israele non può certo ritirarsi da Gaza, sapendo che Hamas, dopo l’uccisione di Haniyeh, farà di tutto per vendicarsi. Ed è ancora operativa.

I terroristi nascosti nei cunicoli di Gaza o nei campi della Cisgiordania ricordano che le ultime parole di Haniyeh pronunciate in una intervista alla tv iraniana prima di essere ucciso sono state: «Israele non ha diritto nemmeno ad un centimetro quadrato di territorio». Poteva essere una minaccia, una dichiarazione di propaganda, un modo di alzare il prezzo in una ipotetica trattativa: è diventato un lascito, un testamento consegnato alla milizia fondamentalista. Sul fronte libanese ci si prepara a una guerra sempre più estesa, Hezbollah non dirama comunicati ma solo una frase ripetuta come un mantra sui social: «Ora basta parole, la risposta è sul campo».

Gli sfollati dal sud del Libano e dal nord di Israele

Certo non rientreranno tanto presto gli sfollati dal sud del Libano e dal nord di Israele. «Vogliamo la pace», dicono ora i drusi dei villaggi sul confine dopo la strage di Majdal Shams, «non ci interessa la vendetta», ma lo dicono sottovoce, chiedono di non essere ripresi. A Teheran il capo supremo della Rivoluzione l’ayatollah Ali Khamenei studia con i suoi consiglieri la nuova mossa, a Gerusalemme il consiglio di Guerra israeliano esamina con Benjamin Netanyahu le nuove possibili mosse. Compresa una possibile entrata delle forze di terra in Libano, come invocano gli ultrasionisti che festeggiano i raid di Beirut e Teheran, una azione che invece temono i militari che chiedono al governo di non moltiplicare ulteriormente i già troppi fronti di battaglia.

Si spera in una nuova, ennesima, mediazione, ma sono lontani i tempi (solo due anni fa) in cui l’inviato Usa Amos Hochstein convinse Libano e Israele, ancora formalmente in guerra, a un accordo reciproco e favorevole e soprattutto pacifico per lo sfruttamento del petrolio nel Mediterraneo. Un accordo storico, si disse. Dal 7 ottobre la storia ha cominciato a correre in direzione contraria.

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