
Tutti pazzi per Clementina
è diventata famosa in tutto il mondo arabo, o certamente è molto popolare nei tribunali dove vengono processati estremisti islamici. è un giudice milanese fino a poco tempo fa conosciuta per il suo carattere schivo e riservato. A pochi come a lei si adatta il motto “il giudice parla solo con le sentenze”. Non ci sono sue foto in circolazione. Non c’è una sua immagine in tutto l’archivio della Rai o di Mediaset. Niente interviste, niente riprese, niente di niente. Eppure oggi la sua sentenza più famosa viene pubblicata sul sito internet di al Jazeera, l’emittente satellitare araba e il suo nome è stato invocato da un fondamentalista marocchino, sotto processo a Rabat dopo essere stato detenuto nella base Usa di Guantanamo. Ha detto: «Guardate cosa ha scritto Clementina guardate cosa ha scritto Clementina». E Clementina è lei, Clementina Forleo, Giudice per le indagini preliminari di Milano. A renderla famosa è stata proprio una sentenza, e niente altro. Ma è la sentenza che decideva sulla richiesta di rinvio a giudizio per alcuni islamici accusati dalla Procura di Milano di terrorismo internazionale, l’articolo 270 bis del codice penale. E nella sentenza il giudice stabilisce che quello che stavano organizzando gli accusati, compreso reclutare combattenti per la guerra in Irak e fornire loro appoggio logistico, andava considerato guerriglia e non terrorismo. E condannare la guerriglia in altri Stati, dice la sentenza, «a prescindere dall’obiettivo preso di mira, porterebbe inevitabilmente il giudice ad una ingiustificata presa di posizione per una delle due forze in campo». Non importa se una delle due parti è stata inviata dal governo italiano in una missione internazionale di pace? Non importa se altri magistrati italiani hanno aperto procedimenti contro i “guerriglieri” che hanno ucciso 13 carabinieri e due civili italiani a Nassiriya? Per quale reato, poi, se si tratta di guerriglia e non terrorismo… E resta aperto il dubbio su quanto siano “guerriglia” azioni che coinvolgono i civili, i kamikaze che si fanno esplodere tra la gente. Ma per il giudice non c’è prova che i combattenti reclutati in Italia avessero quest’ultimo obiettivo. E quindi non è terrorismo.
il dolce daki
Uno dei protagonisti di questa storia è un giovanotto marocchino dall’aspetto timido e sorridente. è stato l’unico ad essere lasciato libero subito perché gli altri hanno ancora dei conti da regolare con la giustizia. Lui invece ha già scontato una condanna per ricettazione e documenti falsi. Si chiama Mohammed Daki, e si dice innocente di tutto. Ma ad Amburgo, dove viveva prima di finire in carcere in Italia, le sue frequentazioni lo avevano già messo nei guai. «Sono andato ad Amburgo per studiare ingegneria elettronica – ci dice – ma poi sono venuto in Italia perché qui ho una moglie e un figlio e in Germania avevo solo un permesso di studio, mentre devo poter lavorare…». Il suo nome era nelle liste dei personaggi considerati pericolosi dall’antiterrorismo tedesco, ad Amburgo aveva base Mohammed Atta, il capo del commando terrorista dell’11 settembre. «Mai conosciuto», si difende. E Ramzi Bin al Shibh, che avrebbe coordinato i finanziamenti per i terroristi delle Twin Tower? «Ramzi, sì. L’ho conosciuto in moschea. Mi ha chiesto di usare il mio indirizzo come domicilio. Io non so se è un terrorista». A quel domicilio di Amburgo, secondo il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, sono arrivati i finanziamenti per i kamikaze. «Non ne so nulla». E in Italia? Nella sua abitazione – dice il ministero – è stato trovato materiale che prova i suoi collegamenti con il gruppo terrorista di Al Zarkawi, e la componente curda di Ansar Al islam, i gruppi fondamentalisti che agiscono in Irak. «Nulla, non hanno trovato nulla. Tanto è vero che sono libero». Però è stato condannato ad un anno e dieci mesi. «Per ricettazione, che non ho fatto. Per documenti falsi, che non esistono. E per aver ospitato una persona». Che persona? «Un amico degli amici». Un terrorista? «Non lo so, questo non lo so». Ora Daki è libero in attesa dell’appello. E la richiesta del ministero degli Interni che voleva almeno espellerlo dall’Italia è stata respinta, sempre dal giudice Forleo. Deve attendere qui il secondo processo.
LA LISTA DELLA COMMISSIONE
Quanti altri casi come questo ci sono nel nostro Paese? Su 188 arresti per terrorismo internazionale fino ad ora si è arrivati ad una sola condanna definitiva. E c’è poi una zona indistinta, di personaggi che pur essendo stati condannati in Italia negli anni Novanta e pur avendo accuse pesanti in altri paesi hanno ricevuto da noi il permesso di soggiorno se non lo status di rifugiati politici. E frequentano liberamente le moschee dove secondo l’antiterrorismo è possibile incontrare gli aspiranti combattenti del jihad, la guerra santa islamica. Almeno duecento sono partiti da Milano negli ultimi anni per la Bosnia, l’Afghanistan, e ora l’Irak. A Guantanamo ci sono undici fondamentalisti catturati in Afghanistan che fino al 2001 risiedevano in Italia.
Ci sono poi gli algerini, i leader del Fronte di salvezza islamico che si sono rifugiati in Italia dopo che nel ’92 Algeri aveva messo al bando il partito dei fondamentalisti, in seguito all’ondata di terrorismo che ha fatto centomila morti in dieci anni. Ad alcuni dei capi integralisti è stato riconosciuto dall’Italia lo status di rifugiati politici. Tra loro c’è Othman Deramchi, che è in Italia dal 1993, insieme a suo genero Djamal Lounichi, ex imam di Algeri. Il suo nome figura al primo posto in una lista redatta dalla Commissione europea il 20 marzo del 2004, un elenco di nomi ai quali viene chiesto che siano applicate le misure restrittive e di controllo stabilite per le persone considerate “associate” a Bin Laden e alla rete di Al Qaeda. Deramchi, per l’antiterrorismo italiano, non ha nulla a che fare con Bin Laden ma è vero che lui e suo genero sono stati condannati nel 2002 a Napoli, per traffico di armi e documenti falsi, e ora sono liberi in attesa dell’appello e vivono e lavorano tranquillamente a Milano. Deramchi ha un negozio di abiti vicino a piazzale Loreto. è quasi stupito del nostro interesse: «C’è tanta gente in quell’elenco… Io ora mi occupo della mia famiglia, e in Italia sono un rifugiato politico perché sono perseguitato nel mio paese, altro che terrorista…». Ma è stato condannato a Napoli. «Si vedrà in appello. Io mi devo occupare della mia famiglia ora, devo mantenere i miei figli… lei mi capisce… Ma c’è tanta altra gente su quella lista…». è vero, ce ne sono altri, tanti altri, come lui e Daki. Alcuni lavorano, hanno residenza e codice fiscale, come Deramchi, altri sono aiutati dai “fratelli”. «Ho parlato nella moschea, ho chiesto aiuto ai miei fratelli musulmani – dice Daki – tra noi ci aiutiamo. Ma ora vorrei andar via dall’Italia». Andare dove? «Negli Stati Uniti. Ho chiesto il visto». Per fare che? «Che domande, l’ingegnere elettronico».
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