Tutte le lobby e le cricche che impediscono al Pd di Bersani di essere riformista
La strada per la vittoria di Pier Luigi Bersani è, in parte, favorita dalla situazione generale: la coalizione del centrodestra risente ancora della sconfitta inflitta a Silvio Berlusconi nel novembre 2011; Mario Monti si mostra inadeguato a definire una vera rotta per la nazione, certo non aiutato da due mediocri opportunisti come Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini; Antonio Ingroia e Beppe Grillo infastidiscono ma non offrono un’alternativa politica bensì di pura protesta. La sapienza politica con cui sono state organizzate le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi e poi per le liste, ha dato un certo ordine a un Partito democratico non ancora ben assestato. In un momento così tempestoso come l’attuale la socialdemocrazia europea – dalla Francia all’Olanda alla Repubblica Ceca – appare una forza politica non esaltante, incerta sui grandi obiettivi ma al fondo rassicurante e in questo senso in grado di infastidire persino una Angela Merkel ancora egemone in Germania ma portatrice più di una mentalità bottegaia che di visione.
Non è impossibile dunque che il politico piacentino possa essere il prossimo premier. Nonostante questa prospettiva, i problemi suoi e del suo schieramento sono considerevoli. Non avere affrontato i nodi della crisi italiana in questo ventennio impone a ogni tornante il fare i conti con i mostri scatenati dalla stessa propria ignavia: ti liberi dalle intercettazioni su Napolitano e ti infili nel blocco dell’Ilva, cedi al coacervo di interessi economico-finanziari che impongono la scelta di Umberto Ambrosoli per la Lombardia e finisci nel caos del Monte dei Paschi. La guerra per il Quirinale di cui parla anche il caso senese (con la volontà di azzoppare l’eventuale corsa di Mario Draghi e di affossare qualsiasi candidatura di Giuliano Amato) è così sanguinosa che il Pd non sa più che pesci pigliare. La Cgil è insieme uno scudo (decisiva nella sconfitta di Matteo Renzi) e un peso opprimente: ci si barcamena così tra candidati riformisti come Carlo Dell’Aringa e Giampaolo Galli, e cedimenti alle nomenklature di corso d’Italia come con Guglielmo Epifani. La forza dei riformisti che “hanno governato” – da Gerhard Schröder a Tony Blair – di fare i conti con il conservatorismo sindacale non si vede neanche lontanamente dalle parti del Pd che è restato a un molto veltronian-berlingueriano “siamo innovatori ma anche conservatori”. Tutti i pezzi di Prima Repubblica che cadono sulla testa dei cittadini – dalle Regioni alla magistratura, dal finanziamento pubblico dei partiti alle fondazioni bancarie – non trovano risposte programmatiche da parte del bersanismo al massimo disponibile alla manutenzione. Di fronte agli sbandamenti del centrodestra e alla mancanza di qualsiasi spessore nella coalizione di elitisti e topini nel formaggio, la manutenzione può essere vincente. Ma non risolutiva.
Certo, il Pd è aiutato dall’aria che tira nel Continente dove la paura spinge a ritirarsi sotto la protezione di forze un po’ intorpidite ma solide come sono spesso quelle socialdemocratiche. Però Bersani non è perfettamente organico al Pse anche per la presenza nelle file del partito di un nucleo di ex Dc ipocriti che non vogliono prendere atto della realtà politica: il che indebolisce l’Italia così come il parallelo antiberlusconismo di Casini non ci consente di pesare adeguatamente nel Ppe. Cautamente europeista, il Pse ha spesso comportamenti articolati: così François Hollande all’interno del suo schieramento ospita il forte nucleo nazionalista di Laurent Fabius ed Ed Miliband con i suoi laburisti gioca di sponda, per mettere in difficoltà David Cameron, con i tory anti-Unione. Il candidato cancelliere della Spd, poi, Peer Steinbrück, è politico di qualità quanto a capacità di governo, ma con debolissimo carisma, e dovrà tenere conto del clima della Germania e quindi marginalizzare forze politicamente fragili come quelle del Pd italiano. Bersani dunque, pur se ha costruito una coalizione migliore di quelle vittoriose nel 1996 e semivittoriose nel 2006 guidate da Romano Prodi, basandosi su un partito più organizzato e su un rapporto con un sostanziale ascaro come Nichi Vendola, assai meno ingombrante dei vari leader di Rifondazione comunista, ha limitate basi sociali e internazionali per una politica anche solo un po’ riformistica che peraltro potrebbe essere consentita da una congiuntura internazionale nei prossimi due anni forse meno cupa e che è indispensabile comunque per tenere insieme il nostro Stato e la nostra società.
Questa situazione da una parte può consentire l’apertura di un qualche spiraglio costituente (anche se la coalizione degli elitisti più topini-nel-formaggio tenterà, per difendere gli interessi oligarchici che rappresenta, di chiudere ogni varco), dall’altra se ci fosse uno scatto di lucidità nel quartier generale del centrodestra potrebbe permettere di fare un ultimo tentativo di vincere, presentando una offerta rinnovata in grado di approfittare dell’evidente deficit di riformismo di Bersani.
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