
Ttip. Magari non sapete neanche cosa vuol dire, ma questa sigla sta per cambiare il mondo

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Per i suoi apologeti è l’accordo che permetterà di creare milioni di nuovi posti di lavoro, aumentare Pil e redditi, abbassare i prezzi dei prodotti di largo consumo, stimolare l’innovazione tecnologica e abbattere i tempi della burocrazia. Per i suoi detrattori è l’ultima diavoleria liberista che avvantaggerà soltanto le multinazionali perché darà loro il potere di sottomettere i governi alle proprie volontà o in alternativa di intentare contro di loro cause milionarie, condurrà alla privatizzazione dei servizi pubblici, armonizzerà al ribasso tutti gli standard, da quelli relativi alle tutele dei lavoratori a quelli concernenti la sicurezza di alimenti e medicinali. Per la quasi totalità delle opinioni pubbliche, di qua e di là dell’Atlantico, resta un oggetto misterioso.
A più di due anni dall’inizio dei negoziati, il Partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip nell’acronimo inglese usato anche dalla stampa italiana) fra l’Unione Europea e gli Stati Uniti resta un enigma per un motivo molto semplice: le trattative avvengono in forma riservata fra la direzione generale commercio della Commissione europea e un vice ministro del Commercio statunitense. Col Trattato di Lisbona i Ventotto hanno delegato alla Commissione tutti i poteri in materia di negoziati commerciali internazionali, e quel che filtra ai rappresentanti nazionali è poco. Così la scena è occupata quasi interamente dalla consueta diatriba fra liberali liberisti e No Global, entusiasti dell’integrazione mondiale dei mercati da una parte, sinistre radicali e destre populiste dall’altra. Per Giacomo Lev Mannheimer dell’Istituto Bruno Leoni il Ttip creerà «il più grande spazio di libero scambio mai esistito sul pianeta», per George Monbiot, attivista politico di sinistra ed editorialista del Guardian, si tratta di «un assalto frontale alla democrazia». Per la Commissione europea il Ttip «significa maggiori opportunità commerciali, maggiore crescita e più posti di lavoro», per Le Monde diplomatique equivale invece a «Ingaggiare dei tribunali al servizio degli azionisti, fare della segretezza una virtù progressista e consegnare la democrazia alle cure dei lobbisti». Vediamo se ci si può raccapezzare.
Di un’area transatlantica di libero scambio delle merci e dei servizi e di libera circolazione dei capitali si discute dalla metà degli anni Novanta, in particolare a partire dal summit Unione Europea-Stati Uniti di Madrid del dicembre 1995. Da allora il progetto si è fatto lentamente strada fino all’avvio formale dei negoziati, il 13 febbraio 2013, per la messa a punto di quello che è stato chiamato il Partenariato transatlantico su commercio e investimenti. Gli obiettivi sono: cancellare i restanti dazi sul commercio di manufatti e prodotti agricoli fra le due sponde dell’Atlantico; liberalizzare gli appalti pubblici così che aziende europee possano partecipare a gare di appalto statunitensi e viceversa; eliminare gli “ostacoli non tariffari”, principalmente costituiti dalle differenze di regolamentazioni e di standard richiesti per i prodotti, sia omogeneizzando le norme per l’ammissione di un prodotto sul mercato, sia riconoscendo i regolamenti dell’altra parte che forniscono una protezione equivalente; infine offrire maggiori garanzie agli investimenti. Ciò dovrebbe portare una serie di vantaggi all’uno e all’altro dei contraenti. Grazie all’omologazione degli standard o al reciproco riconoscimento dei rispettivi regolamenti sui prodotti, le imprese non dovrebbero più produrre merci diverse per i due mercati e metri cubi di documentazione per la burocrazia dei controlli, con una conseguente diminuzione dei costi. Per questo motivo, per l’accresciuta concorrenza e per l’eliminazione dei dazi i consumatori beneficerebbero di prezzi più bassi e di una più ampia scelta di prodotti, alle stesse condizioni di sicurezza di prima.
Vantaggi e svantaggi
Secondo uno studio commissionato dalla Commissione europea al Centre for Economic Policy Research di Londra, se l’accordo sarà veramente ampio e ambizioso, i paesi dell’Unione Europea ne avranno un guadagno economico pari a 119 miliardi di euro all’anno, che si tradurrà in un maggior reddito disponibile per famiglie da quattro persone di 545 euro annui. Negli Stati Uniti l’incremento di entrate sarà inferiore (95 miliardi di euro), ma il maggior reddito disponibile per famiglia superiore (655 euro), visto che lì le tasse sono più basse. Le esportazioni europee di beni e servizi verso l’America aumenterebbero di 187 miliardi di euro annui. Aumenterebbero anche i posti di lavoro, anche se nessuno si azzarda a prevedere di quanto.
Su cosa si basano allora le critiche di chi vorrebbe uccidere nell’uovo il Ttip? Alcune vengono rigettate dalla Commissione europea con un gesto infastidito della mano, come quelle che evocano un’invasione dei mercati europei da parte di prodotti Ogm americani e carne bovina agli ormoni, o la privatizzazione dei servizi pubblici, o lo stravolgimento della legislazione dell’Unione Europea. «Il Ttip non prevarrà sulla legislazione della Ue, né potrà abrogarla o modificarla», si legge sul sito della Commissione. «Spetterà ai 28 Stati membri e al Parlamento europeo approvare eventuali modifiche a disposizioni legislative o regolamentari dell’Unione Europea allo scopo di liberalizzare il commercio. La carne bovina nutrita con ormoni non è autorizzata nella Ue. Questa situazione non cambierà con il Ttip. La Ue ha un sistema rigoroso per decidere se consentire alle società di vendere un determinato Ogm nei paesi dell’Unione. La legislazione di base della Ue sugli Ogm, comprese la valutazione della sicurezza effettuata dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare e la procedura di gestione dei rischi, non sono negoziabili e non saranno modificate dall’adozione del Ttip. Né il Ttip né qualsiasi altro accordo commerciale della Ue impongono ai paesi di liberalizzare, deregolamentare o privatizzare i servizi pubblici nazionali o locali. Parliamo di: sanità pubblica, istruzione pubblica, trasporti pubblici, raccolta, depurazione, distribuzione e gestione dell’acqua. Ogni decisione in merito a liberalizzazione, deregolamentazione o privatizzazione di tali servizi è di esclusiva competenza dei governi nazionali e delle autorità locali. Gli accordi commerciali, incluso il Ttip, non modificano questa situazione».
Altre critiche, però, qualche base potrebbero averla. Wolf Jäcklein, alto responsabile sindacale della Cgt francese, ha fatto notare che concludendo un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti l’Europa si mette in competizione con un paese che ha sottoscritto solo due delle otto convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). Gli Stati Uniti non hanno firmato nessuna delle due convenzioni sulla libertà di associazione dei lavoratori, nessuna delle due sulla discriminazione, una sola delle due convenzioni sul lavoro forzato e una sola delle due sul lavoro minorile. Mentre i paesi dell’Unione Europea le hanno firmate tutte e otto. «Sul salario minimo e sui contratti collettivi problemi di convergenza fra le legislazioni Ue e Usa ce ne sono», aggiunge Giuseppe Pennisi, economista ed ex dirigente ministeriale che si è occupato di liberalizzazione degli scambi commerciali internazionali sin dai tempi del Kennedy Round, nella seconda metà degli anni Sessanta.
Il rischio di un’erosione dei diritti dei lavoratori europei a medio termine non è campato per aria. Sul versante americano, invece, c’è chi è preoccupato dell’invadenza delle banche europee e di un allentamento delle briglie a quelle statunitensi. «I negoziatori dell’Unione Europea hanno chiesto una revisione delle riforme introdotte dal presidente Barack Obama per regolare il settore finanziario e una restrizione dei limiti imposti alle attività bancarie. Si pensi in particolare alla “regola Volcker” che limita la capacità delle banche commerciali di sviluppare attività speculative, alle leggi proposte dalla Federal Reserve rispetto alle banche estere, e alla regolamentazione pubblica delle assicurazioni», ha scritto Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch di Washington. «È facile pretendere che l’accordo potrebbe condurre ad allentare i vincoli sulle banche che non a torto l’opinione pubblica ritiene responsabili della grande crisi che ci affligge», dice Riccardo Perissich, vice presidente del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti ed ex dirigente della Commissione europea.
La critica che ha creato più agitazione resta comunque quella secondo cui con la firma dell’accordo di partenariato i governi si consegnerebbero mani e piedi legati alle grandi imprese multinazionali. Una delle clausole qualificanti dell’accordo è che, nel caso che gli stati modifichino le loro leggi nazionali in un senso che va contro quanto stabilito nel Ttip, gli investitori stranieri possono ricorrere presso corti arbitrali diverse dai giudici nazionali. Se i giudici arbitrali statuiscono che c’è stata infrazione, possono stabilire indennizzi multimilionari.
Detta così, sembra davvero una trappola e un ulteriore trasferimento di potere dalla politica alle imprese e alla finanza. Quello che molti dimenticano di far notare è che accordi commerciali bilaterali o multilaterali con clausole che prevedono la risoluzione delle dispute su base arbitrale esistono da più di cinquant’anni. Attualmente sono in vigore 1.400 accordi commerciali di natura bilaterale che prevedono meccanismi di risoluzione arbitrale delle dispute sottoscritti dai 28 paesi dell’Unione Europea. Alcuni di questi meccanismi sono multilaterali: esistono a livello di Banca Mondiale, Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) e Oil. Per quanto riguarda le controversie fra multinazionali e governi, sono stati censiti 550 arbitrati fra gli anni Cinquanta e oggi, l’80 per cento dei quali hanno avuto luogo fra il 2003 e il 2012. I meccanismi di risoluzione arbitrale sono nati al tempo della decolonizzazione e delle politiche terzomondiste: le grandi imprese straniere finivano espropriate senza tante cerimonie e con indennizzi ridicoli, e rivolgersi ai tribunali locali aggiungeva solo la beffa al danno. Così i paesi ex colonialisti e gli Stati Uniti cominciarono a esigere la creazione di corti arbitrali per le controversie come condizione per firmare accordi bilaterali per la libera circolazione delle merci e la cooperazione economica. Il numero delle nazionalizzazioni di imprese europee e americane diminuì vorticosamente.
Premesso tutto ciò, la perplessità resta: d’accordo diffidare dei giudici di un paese che è stato colonia del nostro, ma perché europei e americani, che appartengono alla stessa civiltà occidentale, non si fidano dei rispettivi giudici, o in subordine delle corti arbitrali multilaterali già esistenti, a cui potrebbero rivolgersi i governi identificando il loro interesse con quello dell’impresa danneggiata? «Delle istanze arbitrali multilaterali gli americani si fidano poco, temono che siano prevenute contro di loro», prova a ipotizzare Pennisi. L’altra ipotesi esplicativa è quella avanzata dai militanti anti-Ttip: la lobby delle grandi imprese di qua e di là dell’Atlantico sta imponendo la soluzione per sé più favorevole. Resta il fatto, inoppugnabile, che se si vogliono attirare investitori nel proprio paese occorre fornire loro delle garanzie, e fornire garanzie significa anche un po’ legarsi le mani. La perdita relativa di sovranità dovrebbe essere compensata dai vantaggi economici. In fondo, si tratta di scegliere il male minore ovvero il maggior bene relativo: liberi ma poveri, oppure un po’ meno liberi ma anche un po’ meno poveri.
L’ultima possibilità
Alla fine della fiera, il Ttip si giustifica soprattutto per due ragioni strategiche. «L’Europa non è il Vecchio Continente, è un continente vecchio; gli Stati Uniti non sono un giovane paese, sono un paese giovane: l’Europa si troverà a beneficiare della crescita americana, sia economica sia demografica», spiega Pennisi. E Perissich aggiunge: «Che si tratti di norme industriali, di regolazione finanziaria, di protezione della proprietà intellettuale, o della sicurezza e della salute, i paesi emergenti non hanno ancora la tradizione culturale e la capacità di produrre norme potenzialmente valide a livello globale. Anche se formalmente ce ne contestano il diritto, di fatto si aspettano da noi il segnale per produrre o almeno proporre le regole della futura economia globalizzata. Questa finestra non sarà aperta a lungo e nulla è possibile se permane un dissidio fra europei e americani». Insomma, questa è l’ultima volta che le regole possiamo stabilirle noi.
Foto Ansa
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13 commenti
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L’ennesima fregatura dopo l’euro, simbolo della falsa Unione europea che fa molto comodo ad alcuni e dagli stessi ci è stato imposto…. Altro che adenauer !
Peccato aver citato solo alcune fonti e non altre, come l’articolo di Jeronim Capaldo della Tufts University che con un diverso modello econometrici mette in discussione le stime del CEPR. Peccato aver concentrato parte delle critiche su “Ogm e pollo al cloro”, perche’ sono ipotesi, sebbene supportate da dati. Meno ipotetico sara’ l’impatto di un possibile +118 per cento di import agroalimentare che metterebbe fuori mercato parte della produzione europea (dati Parlamento europeo 2014 e stime sull’impatto sul settore della carne in Irlanda di pochi giorni fa, giusto per dare due indicazioni). Peccato non dire che la demagogia delle indicazioni geografiche, e di una loro tutela, fa a pugni con la realta’ di un accordo gia’ concluso (il Ceta, col Canada) dove la tutela e’ minima, e con il negoziato TTIP dove l’agrbusiness americano ha gia’ detto No. Insomma, le motivazioni per opporsi sono razionali, e non possono essere snobbate come fa l’UE
Qualunque accordo internazionale prevede per sua natura la rinuncia a parte della sovranità nazionale (soprattutto a livello giuridico). L’importante è che la discussione che porterebbe a decidere su questa rinuncia sia approfondita a livello nazionale, cosa che non mi pare avvenga.
La rinuncia a porzioni di sovranità dove essere solo nell’interesse dello stato detentore, e non dovrebbe mai incrinare la sovranità stessa, altrimenti diventa fatto extra ordimem che sovverte direttamente l’assetto costituzionale.
Si veda il recente inserimento in costituzione della clausola del pareggio di bilancio, che non c’entra nulla con i valori fondanti la costituzione stessa, incentrata sulle persone e non sul sistema. Su questo ricordo ancora Zagrebelsky padre (che seppure io non lo ami particolarmente, rappresenta una generazione di giuristi ancora degni di questo nome) riprendere una conduttrice rai: la persona, disse, la persona viene prima dello stato.
L’uso dello strumento del negoziato internazionale che viene fatto da molti anni a questa parte, non solo nel metodo, come dice cisco, ma anche nel merito, sarebbe stato definito, in altre epoche, “alto tradimento”.
QB
Certamente la rinuncia della sovranità deve essere un vantaggio e infatti i promotori del Ttip lo sottolineano. Bisogna vedere se è credibile la loro posizione nel merito. In ogni caso la nostra Costituzione già tra i suoi principi fondamentali (art 11) “consente limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Quindi il problema è certamente anche di merito, e qui non si sta parlando di pareggio di bilancio, peraltro puntualmente disatteso.
La rinuncia a una parte della sovranità, Cisco, limitata a determinate materie, per così dire, da accordi che non sono patti col diavolo, ma soggetti a rinegoziazione: penso agli accordi con l’Ue in materia di politica monetaria; o agli accordi con i Paesi del Maghreb, nel nome di quel “mare di pace” e “area comune di scambio mediterraneo” che vede soccombere la nostra agricoltura – penso a quella siciliana conoscendola un po’ meglio di altre realtà – per favorire le importazioni da Algeria, Egitto, Tunisia, Marocco – c’è di mezzo il ricatto energetico,quello migratorio; e le arance crescono a Francofonte (SR), non a Francoforte sul Meno e i pomodorini a Pachino (RG), non a Amburgo. Il Ttip sarebbe il colpo di grazia per la nostra agricoltura.
Perdipiù, questi accordi avvengono al riparo da orecchie indiscrete, mentre si vorrebbe esserne informati per discuterne non a cose fatte.
@Raider
Infatti sottolineavo proprio la mancanza di informazione sul tema per poter giudicare. In generale i trattati di libero scambio creano ricchezza, anche se naturalmente – trattandosi di scambi – c’è chi ci guadagna e chi ci perde: ma non i singoli paesi, quanto singole aziende o comparti economici. I pomodori di Pachino subiscono la concorrenza di quelli olandesi o tedeschi? Beh, bisognerebbe capire perché, prima di gridare allo scandalo.
Lo stesso libero accesso ai nostri mercati non è garantito alle merci che possono fare concorenza ai prodotti tedeschi: e d’altra aprte, i tedeschi, tramite l’Ue, hanno fatto questo “scambio equo” garantendo ai maghrebini know-how, in modo da metterli in condizione di poter concorrere con le quel che resta delle nostre industrie. Potrei rispondere che so chi ci rimette e anche se non sapessi chi ci guadagna, sentirsi dire “beh” non è una grande dimostrazione di comprensione rispetto alla desertificazione di quel poco che avevamo qui. La Sicilia sud-orientale era come il Nord Est, fino a pochi anni fa. Ma io “beh” al Nord Est (per esempio) del mio Paese non lo direi mai.
Io sono contrario al Ttip, sarà l’ennesima fregatura impostaci dall’alto.
Ogni accordo fra governi che miri scientemente o produca come “effetto collaterale”, voluto o no, la riduzione, lo svuotamento, l’espropriazione della sovranità nazionale, del potere che spetta ai popoli di decidere liberamente, va ridiscusso nelle sedi pubbliche e istituzionali. Specie se, come scrive Casadei, “questa è l’ultima volta che le regole le possiamo stabilire noi.”
Due esempi dovrebbero bastare a dimostrare che la controversia sul TTIP non riguarda tanto il commercio, quanto la legalità e la democrazia.
In primo luogo, la Commissione europea e gli Stati Uniti vogliono includere una clausola di “risoluzione delle controversie tra investitori e Stato”. Ciò consentirebbe alle imprese di aggirare i sistemi giudiziari ordinari e citare in giudizio i governi direttamente, in collegi arbitrali speciali, per tutto ciò che ritenessero non essere un trattamento “giusto ed equo” – solitamente quella legislazione nazionale volta a tutelare l’interesse pubblico.
Tali collegi arbitrali sono profondamente viziati. Il ricorrente – l’azienda – ha un 50% di influenza su chi li presiede, e le decisioni dei collegi non sono vincolate dal precedente. L’arbitrato va bene per la risoluzione delle controversie contrattuali, ma non dovrebbe arrivare a giudicare la validità delle leggi.
In secondo luogo, l’UE e gli USA vogliono anche istituire un nuovo (ovviamente, non eletto) organo con il potere di esaminare tutta la legislazione che ciascuna delle due aree ha in corso di approvazione.
Entrambe queste iniziative scoraggiano fortemente i governi ad agire nell’interesse pubblico. Al contrario, allontanano il potere dai governi eletti, in direzione delle imprese e di regolatori e collegi arbitrali anonimi .
Nel momento in cui sia il governo federale degli Stati Uniti che le istituzioni europee sono in difficoltà sulla propria legittimazione democratica, potrebbe non essere la più saggia delle idee quella di devolvere i poteri di controllo ad organismi ancora più lontani dai normali cittadini.
Io preferisco con tutti I pro e I contro legarmi piu agli USA che ad india e cina. Sempre dalla parte dell’occidente con tutti I suoi paradossi, dopo essere stato x diversi anni in Africa x lavoro.
L’ho sempre detto che la soluzione è una sola: alla faccia di tutti gli accordi extranazionali occorre creare un regime di tassazione iperlimitato in modo da attrarre investitore e creare una rete di banche potenti dove depositare i soldi. In altre parole, diventare un paradiso fiscale.