Tsipras e l’ineluttabilità di un default. Che non è solo economico né solo greco
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
I contenuti dell’intervista a Rocco Buttiglione rappresentano uno sfondo e un commento perfetti ai risultati del referendum greco sulle condizioni per l’erogazione al paese dell’ultima tranche di prestiti europei anticrisi. I commentatori del giorno dopo si affannano a stabilire se la demagogia del governo rosso-nero di Alexis Tsipras con annesso sostegno esterno di Alba Dorata sia più colpevole dell’intransigenza pseudo-europeista, in realtà pro domo sua, dei creditori tedeschi e dei nordici loro alleati. Ma la realtà è che una crisi come quella che l’Unione Europea e l’Eurozona stanno vivendo in questi giorni era semplicemente inevitabile.
Anche se Atene avesse accettato le condizioni avanzate dai creditori il mese scorso e le avesse applicate effettivamente, ricevendo per compenso i crediti pattuiti, di qui a un anno ci saremmo ritrovati nello stesso vicolo cieco di oggi. Perché, come ha precisato anche recentemente il Fondo monetario internazionale, il debito greco è insostenibile e può essere solo o cancellato o portato al default. Ma l’Unione Europea non può cancellare il debito fra stati perché ciò va contro i trattati e perché si creerebbero i presupposti per altre insurrezioni antidebitorie in stile greco in altri paesi dell’Eurozona, mentre il default rischia di mandare gambe all’aria la valuta comune.
[pubblicita_articolo]Giustamente molti fanno notare che questa crisi dagli esiti imprevedibili non è il risultato di un eccesso di invadenza europea, ma di troppo poca Europa: se quando è stato inaugurato l’euro fossero anche state inaugurate una vera unione politica e una politica fiscale comune, si sarebbero gettate le basi per il controllo centralizzato dell’indebitamento dei paesi dell’Eurozona e quindi per una mutualizzazione del loro debito. Scontiamo un deficit, e non un eccesso, di integrazione europea. Allora bisogna chiedersi perché il processo di integrazione si è arrestato in mezzo al guado, e la risposta più ovvia è che a un certo punto gli interessi nazionalistici hanno preso il sopravvento sull’ideale di un bene comune europeo.
Il braccio di ferro fra Atene e Bruxelles sembra incarnare un nuovo genere teatrale, quello della commedia tragica dove le parti in lotta ostentano una dedizione a grandi ideali che è solo la maschera del gretto interesse nazionale. L’euro doveva essere lo strumento finanziario che permetteva di avere una Germania pro-europea e di evitare lo slittamento verso un’Europa germanizzata. È successo il contrario: la Germania ha fatto dell’euro lo strumento della sua egemonia sul resto dell’Europa, grazie alla trovata di abbinarlo a politiche dell’inflazione più restrittive di quelle degli altri paesi europei, nonostante la Bce indicasse come ideale un’inflazione prossima al 2 per cento all’anno. Si è fatto finta di credere che la Grecia avesse i requisiti per essere ammessa all’euro, solo per permettere alle banche europee e agli interessi finanziari internazionali di arricchirsi prestando denaro ad Atene.
I “valori” che sopravvivono
Alla fine i nodi arrivano al pettine. E ci si deve domandare cosa ha pervertito un processo che, nel decennio seguito alla caduta del Muro di Berlino, sembrava avviato a sorti magnifiche. Buttiglione dà una risposta che merita riflessione: finché l’Europa ha beneficiato della nuova evangelizzazione di Giovanni Paolo II e dell’europeismo di Helmut Kohl, si sono fatti progressi, quando si è rotto con quella tradizione – simbolicamente col rifiuto di menzionare le radici cristiane nella poi abortita costituzione europea – è cominciata la dis-integrazione. Oggi tutto l’idealismo dell’Europa è concentrato sull’espansione del diritto all’aborto e sui diritti impliciti nell’agenda Lgbt: la disintegrazione morale cui corrisponde quella politico-economica. Solo dure lezioni di realtà faranno cambiare strada.
Foto Ansa/Ap
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