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Tre respiratori e tanta fede: le armi del Centrafrica contro il coronavirus

Lettera dal Centrafrica: «Qui il virus si è diffuso poco per il caldo e la bassa età media della popolazione, ma è arrivato: come sempre ci affidiamo a Dio»

Federico Trinchero
12/04/2020 - 2:00
Esteri
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Riceviamo e pubblichiamo la lettera di padre Federico Trinchero, missionario carmelitano scalzo in Centrafrica da 11 anni, residente nel convento Nostra Signora del Carmelo nella capitale Bangui.

In macchina, mentre ci rechiamo a scuola come ogni mattina, la radio spiega le ragioni della lenta diffusione in Africa del virus Covid-19, che ha invece rapidamente raggiunto gli altri continenti. Alte temperature e bassa età media sono le ragioni principali addotte dal giornalista. Difficile non dargli ragione. In Centrafrica, dove vivo da ormai undici anni, la temperatura supera spesso i 30 gradi e il 70% della popolazione ha meno di trent’anni. Ma i miei confratelli, che pure fanno orgogliosamente parte di quell’immenso 70%, non sono per nulla convinti e categorici dichiarano: “Il virus non ci ucciderà, perché gli africani hanno fede e pregano!”.

Fede e preghiera non rientrano purtroppo nei parametri da prendere in considerazione da parte del giornalista di Radio France Internationale. E anche il presidente della Repubblica, pur consapevole della sincera devozione dei suoi cittadini, decide ugualmente di prendere alcune misure di precauzione per arginare la diffusione dell’epidemia: luoghi di culto, scuole, aeroporto, ristoranti, bar e discoteche sono quindi chiusi. E così, se quando ebola era alle porte, ero stato costretto a non mangiar più pipistrelli, ora mi sono rassegnato a non andare più in discoteca. Per fortuna sono comunque possibili le celebrazioni fino ad un numero massimo di 15 persone. La vita conventuale, quindi, procede serena, nella preghiera e nel lavoro, in un silenzio cui non eravamo sinceramente abituati e in una situazione ben diversa rispetto a quando, durante la guerra, eravamo sì chiusi in casa per paura delle bombe, ma con diecimila profughi con noi. Ci mancano ovviamente i nostri fedeli e i bambini e i ragazzi che costantemente scorrazzano attorno al convento. Ma ci auguriamo che questo digiuno non duri troppo a lungo.

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L’arrivo del coronavirus in Centrafrica non si è fatto comunque attendere. Mentre vi scrivo sono stati comunicati ufficialmente undici casi, tutti circoscritti nella capitale. Si tratta per la maggior parte di casi di provenienza straniera, molti dei quali già guariti. Fortunatamente non sono stati ancora segnalati decessi. I contagi locali sono quindi pochi. Occorre tuttavia tenere conto che nel paese esiste un solo laboratorio in grado di effettuare i test e quindi i casi, in realtà, sono sicuramente di più. In Camerun ad esempio, il paese confinante con il quale il Centrafrica ha più scambi economici, si trova in una situazione molto più grave quanto a contagi e decessi. Non ci facciamo quindi grandi illusioni, anche se i miei confratelli manifestano ancora un certo ottimismo, pregano con fervore e hanno stranamente una grande voglia di tornare a scuola.

Se il virus dovesse diffondersi da queste parti, nelle stesse proporzioni con cui si è diffuso in altre zone del pianeta, sarebbe infatti una catastrofe. Il Centrafrica non ha un sistema sanitario in grado di affrontare una tale emergenza. Grande due volte l’Italia e con una popolazione di circa 5.000.000 di abitanti, il paese dispone di soli tre respiratori. Quando l’ho saputo, confesso che è stata per me una bella notizia. Pensavo che non ce ne fossero proprio.

Quanto poi al mantenere le distanze, si tratta della misura più difficile da rispettare. Le aule scolastiche possono spesso contenere anche più di cento allievi, le celebrazioni domenicali nelle chiese sono affollatissime, i colorati e frequentatissimi mercati nei quartieri sono luoghi dove il contatto fisico – anche con persone sconosciute – è inevitabile e i passeggeri in sovrannumero su moto, taxi, piccoli bus e grandi camion sono purtroppo la pittoresca normalità di quasi ogni città africana. Ovviamente da alcune settimane sono state lanciate campagne per sensibilizzare la popolazione a osservare alcune semplici norme d’igiene e una certa distanza per scongiurare un’eccessiva propagazione del virus.

Anche se il contagio dovesse svilupparsi in modo leggero – ed è ciò che tutti ci auguriamo – gli effetti della pandemia si faranno sicuramente sentire e in una certa misura già si avvertono. Se a Bangui non ci sono treni o metropolitane e le fabbriche e i supermercati si contano sulle dita delle mani, si può già constatare un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Tale aumento toccherà in modo particolare le fasce più povere della popolazione. Ma, purtroppo e paradossalmente, il Centrafrica, dopo anni di guerra, è più pronto di altri paesi più sviluppati ad affrontare situazioni di emergenza e a vivere anche in condizioni estreme. Già è successo, ad esempio, di non avere la scuola per mesi se non anni, di essere costretti a non uscire di casa per settimane, di allestire ospedali da campo, di rinunciare a viaggi o eventi e di organizzare il proprio ridottissimo budget mensile senza farsi troppo influenzare dall’andamento della borsa di Wall Sreet.

In Africa poi, non lo dimentichiamo, ogni anno muoiono di malaria quasi 400.000 persone. Migliaia sono poi le vittime di altre malattie come la tubercolosi e il morbillo. E i bambini sono le principali vittime di questa silenziosa ecatombe che non trova molto spazio tra i notiziari che abitualmente ci raggiungono. Forse queste cifre, ora che ogni giorno restiamo impressionati dal numero crescente delle vittime del Covid-19, dovrebbero interrogarci di più e ridimensionare pretese e reazioni davanti all’evento che stiamo tutti vivendo.

Il Centrafrica ha poche armi per una battaglia contro il coronavirus. Ma non si arrende. E come sempre si affida a Dio e si prepara a celebrare la Pasqua, questa volta non in chiese affollate e neppure davanti al televisore o in streaming, ma raccolta attorno alla radio.

Forse, mai come quest’anno, augurarsi una buona Pasqua è al tempo stesso difficile e necessario. Difficile, perché da più settimane conviviamo con la morte e, soprattutto, con la paura di morire. Necessario, perché è proprio in quest’avvenimento, che abbiamo vissuto tante volte in modo distratto e scontato, che come cristiani celebriamo la sconfitta della morte e la liberazione da ogni paura. E probabilmente questo virus, che ormai occupa ossessivamente i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre preghiere, ha scombussolato o risvegliato la nostra fede e ci ha sorpresi più impreparati di quanto lo fossero i nostri ospedali o i nostri governi.

Se il coronavirus dovesse farci scoprire il poco che siamo davanti alla grandezza dell’Unico che può liberarci dalla paura e salvarci dalla morte, sarebbe un non trascurabile effetto collaterale. Buona Pasqua!

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