La guerra in Centrafrica e un antidoto che si chiama misericordia

Di Leone Grotti
21 Novembre 2016
Nel cuore dell’Africa si sommano tutte le contraddizioni umane: la guerra civile, lo scontro tra cristiani e musulmani, la povertà. Ma proprio lì fiorisce una risposta inaspettata: «È un miracolo»

centrafrica-grotti-0

[cham_inread]

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

DAL NOSTRO INVIATO A BANGUI (CENTRAFRICA). Prima «abbiamo sentito gli spari in lontananza, poi abbiamo visto una fiumana di gente scappare, infine sono arrivati qui alla chiesa. Sono entrati, hanno lanciato delle granate e fatto fuoco con i kalashnikov. Sono morte più di 17 persone. Io mi sono nascosto laggiù, dietro la chiesa. Sono vivo per miracolo». Serge Zalla, 47 anni, ricorda come se fosse oggi il giorno in cui la parrocchia di Nostra Signora di Fatima è stata attaccata dai ribelli islamisti. Era il 2014 e nella grande concessione della chiesa vivevano già seimila cristiani sfollati, fuggiti dagli scontri che nel dicembre 2013 avevano sconvolto Bangui, la capitale del Centrafrica, dopo il colpo di Stato di marzo. La voce di Zalla è sovrastata dai rumori della vita di quello che ormai è un vero e proprio villaggio. Le donne chiacchierano attorno all’unico pozzo, mentre aspettano il proprio turno per riempire le taniche d’acqua. Altre sedute sulla terra, rossa come il sangue, tagliano con i machete la manioca. Altre ancora la pressano con i piedi in piccoli catini e cucinano in tegami di rame. Tutte, rigorosamente, all’ombra per proteggersi dal sole che nella stagione secca raggiunge temperature elevatissime. Solo i bambini si avventurano al sole, scorrazzando, giocando e riempiendo l’ambiente afoso di grida gioiose, guardati a vista dalle truppe Onu della Minusca, mitra alla mano. Dappertutto tende di fortuna, per i più fortunati, e semplici giacigli ricoperti dalle reti per proteggersi dalle zanzare per gli altri.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Zalla non ci fa più caso, vive qui da tre anni. Tanti sfollati se ne sono andati, ormai ne rimangono solo 300, ma lui ha ancora troppa paura per lasciare la parrocchia. «E dove dovrei andare? Le nostre case sono state distrutte, bruciate. Io non so neanche se ho ancora una casa: non sono mai tornato nel mio quartiere per controllare», si sbraccia parlando con Tempi. Prima della guerra Zalla aveva una società: produceva caffè e mais e manteneva bene la sua famiglia di nove figli. Oggi è responsabile degli sfollati di Fatima ma non ha un lavoro e non sa neanche dove siano i suoi figli: «Qualcuno è a Bimbo, altri al quartiere Bruxelles. Siamo dispersi per la città. Quando siamo stati attaccati il 5 dicembre 2013 non eravamo tutti insieme. Oggi per vivere mi arrabatto come posso, ma sono povero. Chi mi aiuterà a ricostruirmi una vita?».

Be-Afrika, il nome del paese in sango, la lingua locale, significa “cuore dell’Africa”. Ed è davvero così. Visto dall’alto è come la lama di un’ascia gettata al centro del Continente. Ma non è solo una questione geografica. Il paese è la summa di tutte le qualità e le contraddizioni dell’Africa: è perfetto per l’agricoltura e l’allevamento, ricchissimo di legname, oro, uranio, petrolio, diamanti, eppure la popolazione, stando ai dati forniti dall’Onu, è la più povera del mondo. Il Centrafrica è un paese vasto due volte l’Italia, più della Francia e del Belgio messi assieme, ma ha solo 4,8 milioni di abitanti, un milione dei quali è attualmente sfollato o profugo in Camerun. Dispone di un capitale umano enorme, unico: il 50 per cento della popolazione ha meno di 18 anni, il 40 per cento meno di 15, ma per indice di sviluppo umano è il penultimo paese al mondo. Il Centrafrica ha enormi potenzialità ma non produce nulla, importa tutto dal Camerun, e sono ancora tanti i bambini che non vanno a scuola. Non solo perché non possono permettersela, ma anche perché un istituto su tre è stato distrutto, bruciato o occupato dai ribelli islamisti durante la guerra.

centrafrica-grotti-06

Seleka e anti-balaka
Qui i colpi di Stato sono come la stagione delle piogge: arrivano ciclicamente. Dal 1960, anno in cui l’ex colonia francese è diventata indipendente, ce ne sono stati almeno venti, falliti e riusciti, per una media di oltre una crisi militare ogni tre anni. Gli oltre 20 governi e 450 ministri che si sono succeduti non hanno fatto quasi nulla per la popolazione, se è vero, come dicono i missionari carmelitani scalzi in Centrafrica da quasi cinquant’anni, che in poco meno di sei decenni lo Stato non ha mai costruito una scuola. Gli istituti statali sono un’eredità coloniale o sono stati requisiti alla Chiesa e nazionalizzati. Come scriveva Seneca, «non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare».

Per quanto i centrafricani siano abituati agli avvicendamenti violenti al potere, quello che è successo nel 2013 non ha precedenti: una coalizione di mercenari provenienti dal Ciad e dal Sudan, i Seleka, guidati dal presidente golpista Michel Djotodia, partendo dal nord-est del paese alla fine del 2012, ha progressivamente occupato il Centrafrica fino a conquistare Bangui nel marzo del 2013. Dovunque passavano i Seleka, che non parlavano né sango né francese, ma arabo, hanno razziato le concessioni cattoliche, derubato, torturato e ucciso cristiani. Alcuni dicono che volessero instaurare un califfato, ma i più pensano che si tratti di una faccenda politico-militare manovrata dall’estero: l’ex presidente, François Bozizé, aveva promesso i ricchi giacimenti di petrolio del nord ai cinesi, facendo così infuriare Ciad e Sudan, che li volevano per loro. Parte della popolazione musulmana del paese, circa il 15 per cento del totale, ha appoggiato i Seleka, approfittando della situazione per prendersi rivincite personali o arricchirsi. Le violenze contro i cristiani si sono susseguite senza sosta per otto mesi, fino a quando, nell’estate del 2013, si sono formati dei gruppi di auto-difesa animisti e cristiani, gli anti-balaka, “antidoto” in sango, che hanno sferrato attacchi violentissimi contro la popolazione musulmana. Armati di machete e fucili artigianali, a Bangui uccidevano per strada chiunque venisse identificato come musulmano. La reazione dei Seleka non si è fatta attendere e così è cominciata una guerra fratricida senza quartiere in quello che una volta veniva chiamato “il paese della pace”.

centrafrica-grotti-03

Il refettorio reparto di maternità
A Bangui l’epicentro della violenza è stato il Km 5, il quartiere islamico della capitale, coloratissimo e brulicante di negozi, bancarelle e mercati. Gli scontri più terribili sono avvenuti il 5 e 20 dicembre 2013. In quei giorni, i Seleka, dopo essere stati attaccati, hanno risposto razziando e bruciando l’anello di quartieri che circondava il Km 5, abitato da cristiani e musulmani insieme. Gli islamisti passavano casa per casa, trucidando la popolazione. Centinaia di persone sono morte. Le conseguenze della rappresaglia si vedono ancora oggi: i quartieri sono deserti e vi regna un silenzio innaturale rispetto all’allegra e chiassosa consuetudine africana. Dappertutto case sventrate, muri bucherellati dai colpi dei mitra, edifici bruciati, carcasse di auto abbandonate divorate dalla ruggine. La savana, che qui contende palmo a palmo il dominio della terra all’uomo, ha di nuovo inghiottito questi quartieri, ricoprendoli con la sua vegetazione lussureggiante e prepotente. È da uno di questi quartieri che vengono tutti i profughi di Fatima, tra cui Serge Zalla, ed è sempre da qui che diecimila persone sono fuggite per rifugiarsi alla missione carmelitana nella periferia ovest di Bangui.

«Quando sono arrivati pensavo che sarebbe durata solo qualche giorno e invece sono ancora qui», sorride a Tempi padre Mesmin Dingbedi, 39 anni, priore del convento Nostra Signora del Carmelo. Gli sfollati hanno letteralmente sconvolto la vita del convento, dove abitano quattro preti e diciassette giovani in formazione. L’accoglienza dei frati è stata commovente, hanno aperto le porte facendoli dormire dovunque: in chiesa, nel refettorio, «diventato reparto maternità», nei chiostri. Quando sono diventati troppi, si sono sparsi nel vasto terreno adiacente al convento, dove trionfa un palmeto di 15 mila esemplari. Le tante ong che operano nel paese hanno fornito tende e strutture di fortuna, hanno scavato due pozzi (sui tredici promessi), ma sono i frati che hanno dato speranza alla popolazione. «La gente si rivolgeva a noi per risolvere le dispute e per chiedere assistenza sanitaria», continua padre Mesmin, centrafricano di Bangassou, «noi li abbiamo accolti perché siamo religiosi, non potevamo fare altro».

centrafrica-grotti-01

«Volevo diventare come i frati»
Per padre Federico Trinchero, piemontese in Centrafrica da sette anni, è stata un’esperienza forte: «All’inizio dormivano anche sotto la finestra della mia camera. C’erano duecento bambini e la notte piangevano: ora so cosa prova un padre quando viene svegliato di notte da suo figlio». La missione dei carmelitani ha rischiato di diventare una ong, ma è rimasta una differenza di fondo: «Le ong fanno progetti, hanno obiettivi, vanno in vacanza, ne ricavano profitto. Noi viviamo con loro ogni giorno, mettiamo in pratica il Vangelo e diamo la nostra testimonianza cristiana». La differenza non passa inosservata. John Belego Ziami è un ragazzo di 21 anni, schivo, non ama parlare. È arrivato al campo, dove ancora oggi vivono tremila sfollati, il 20 dicembre 2013. Come tutti gli altri fuggiva dai Seleka, che hanno distrutto il quartiere Cattin dove viveva, alle porte del Km 5. «Se non fossimo scappati, i musulmani ci avrebbero ucciso», racconta a Tempi. Lui, i suoi genitori e i suoi sette fratelli si sono salvati. Altri suoi amici no: «Ho visto tanta gente morire, sono rimasto traumatizzato. È disumano». John usa poche parole per descrivere l’accoglienza dei frati, ma i fatti parlano per lui. Sua mamma vive ancora sotto una tenda, ma lui ha chiesto di farsi frate ed entrare nel Carmelo: «Fin da piccolo ho sempre desiderato offrire la mia vita a Dio e farmi sacerdote. Volevo consacrarmi al Signore ma non sapevo come. Quando la guerra mi ha spinto qui e ho visto come i frati si occupavano di noi, ho deciso: volevo diventare come loro».

Oggi il Centrafrica non è più sotto i riflettori del mondo. Dopo che nel novembre del 2015 papa Francesco, per la prima volta nella storia, ha aperto la porta santa di un giubileo, quello straordinario della misericordia, lontano da Roma nella cattedrale di Bangui, il paese è cambiato radicalmente. Gli scontri sono diminuiti ed è cominciata l’agognata riconciliazione. Ma i problemi sono tutt’altro che finiti: nonostante le elezioni presidenziali più libere e democratiche dall’indipendenza del paese a oggi, il governo è debole, non c’è ancora un esercito nazionale, i soldati dell’Onu non riescono a garantire la sicurezza e faticano a (per non dire non vogliono) disarmare i ribelli. Circa il 60 per cento del paese è ancora sotto il dominio degli islamisti e solo negli ultimi due mesi ci sono stati centinaia di morti in scontri violenti. Il Km 5 è tuttora pieno di uomini in armi, è un quartiere dove quasi nessuno si azzarda ad entrare e l’anello che lo circonda è deserto. Il sentimento di tutta la popolazione è ben espresso da John: «Io posso perdonare le violenze che ho visto, ma oggi i nostri nemici non vogliono fare altrettanto. Io ho ancora paura, non tornerei mai nel mio quartiere, non metterei mai piede nel Km 5. Però ho speranza, perché le cose stanno migliorando».

centrafrica-grotti-04

Check-point e cecchini
Se il paese, pur faticosamente, intravede una via d’uscita è solo grazie a una persona: l’arcivescovo di Bangui, che tra pochi giorni diventerà il cardinale più giovane della Chiesa, Dieudonné Nzapalainga. È lui che ha salvato l’imam del Km 5 dalla furia degli anti-balaka, nascondendolo in casa sua, ed è lui che ha fondato con l’imam e un pastore protestante la piattaforma per la pace inter-religiosa, insistendo che il conflitto non è religioso, ma militare-politico. È lui che, quando nessuno osava mettere piede nel Km 5 per timore di essere ucciso, è entrato senza scorta nel quartiere portando cibo e speranza ai musulmani, sfidando i check-point degli anti-balaka e i cecchini islamisti. È lui che in un paese bloccato dall’odio ha fatto il primo passo, diventando il simbolo del giubileo della misericordia. E mentre i tassisti si rifiutano categoricamente di portarci a visitare il quartiere più pericoloso della città, è lui che ci fa salire sulla sua auto per condurci nel cuore del Km 5.

Non è strano che i religiosi cristiani e i sacerdoti stiano riuscendo là dove i soldati della Minusca, il governo, i progetti delle ong e i soldi dell’Onu hanno finora fallito. La spiritualità e la religiosità sembrano davvero gli unici elementi che possono costituire l’identità del popolo centrafricano. Non a caso le tante baracche di legno fradicio e tetto di lamiera, che a centinaia si arrampicano l’una sull’altra tanto nelle periferie quanto ai lati delle strade principali, dove i centrafricani praticano ogni tipo di commercio, portano nomi ispirati alla religione. Così si incontrano a decine gli spacci “La gloria divina” o “vittoria eterna”, le officine “Dio è buono” per le centinaia di moto-taxi che sfrecciano senza legge o codici della strada, e ancora i rivenditori di cariche per cellulare “Solo Dio basta” e i negozi di chincaglieria “Dio benedice”, “Dio farà” e “Gesù è la soluzione”.

Appena entriamo nel Km 5, la macchina del cardinale viene fermata in continuazione da gente che vuole salutarlo e ricevere da lui la benedizione. Monsignor Nzapalainga guida su strade dissestate in terra battuta rossa, in mezzo a buche che sarebbe più corretto definire crateri, fino al municipio locale, dove è venuto a portare riso, olio e sussidiari per i bambini. Qui, come in tante altre parti del paese, non c’è più lavoro e le scuole sono chiuse da tre anni. Ci accoglie calorosamente – abito lungo bianco, zuccotto islamico e bastone alla mano – il sindaco musulmano, Atahirou-Balla Dodo. Qui, dove cristiani e musulmani si sono massacrati, si getta tra le braccia dell’arcivescovo, mentre donne velate e uomini con la barba attorno a loro gridano e applaudono.

centrafrica-grotti-05

«Lui ha aperto le porte»
«Lui è più di un amico per me», si rivolge il sindaco a Tempi, «è un fratello. No, è più di un fratello. Quando il cardinale ha osato entrare in questo quartiere senza scorta, ha aperto un nuovo futuro per tutto il paese». «Nzapalainga non ha paura, non ha frontiere. È l’uomo della pace», ci dice Mamadou Zinedine, giovane padre di famiglia. Enorme anche la stima per papa Francesco, che durante la sua visita è entrato nel quartiere con molti cristiani ed è uscito con decine di musulmani: «Ci ha liberato, ha compiuto il miracolo. Questo quartiere era bloccato e lui ha aperto le porte. Dopo la sua visita è cambiato tutto. Se non riconoscessi che è merito suo, non potrei più dirmi musulmano».

Se la riconciliazione comincia a diventare realtà, i problemi restano. Come dice il priore del Carmelo, padre Mesmin, «la misericordia deve accompagnarsi alla giustizia e alla verità. I criminali che hanno ucciso, rubato e bruciato devono essere processati. Il nuovo governo deve cominciare a rendere giustizia al popolo, così sarà più facile per tutti perdonare e riappacificarsi».

centrafrica-grotti-02

Come l’erba nella stagione piovosa
È questa oggi la sfida. Una sfida ribadita dall’arcivescovo alla cerimonia di chiusura della porta santa aperta dal Papa, che si è svolta domenica davanti a diecimila persone nella cattedrale di Nostra Signora dell’Immacolata Concezione di Bangui. In un turbinio di colori, canti, ovazioni, spintoni, litigi, risa, la folla che ha stipato la chiesa fin dalle sei del mattino e si è assiepata a perdita d’occhio sul sagrato e sulla strada davanti alla cattedrale, durante una messa di oltre tre ore, Nzapalainga, accolto come un vero capo popolo, ha tuonato dal pulpito: «Come si può immaginare un futuro per il paese se abbiamo ucciso, rubato, stuprato, bruciato, se i bambini non vanno a scuola, se c’è miseria, non ci sono strade e lo Stato non governa su tutto il paese? Anche se non ce lo meritiamo, il Papa è venuto a visitarci e ci ha detto che siamo la capitale spirituale del mondo. Ed è vero: quanti di noi si sono affidati a Dio e non alle armi? Quanti hanno continuato a sperare? Quanti hanno continuato a pregare? Il perdono di Dio è più grande del nostro peccato e la nostra missione è continuare a seguire la via dello spirito e non della carne. Che Maria ci aiuti e ci accompagni in questo cammino».

È da qui che il Centrafrica potrà rinascere e non dai cartelli issati per le strade dalle ong, che annunciano utopicamente: “Io ti accetto, tu mi accetti, noi ci accettiamo”. Un veterano come padre Giovanni Zaffanelli, parroco di Fatima, missionario comboniano milanese nel paese dal 1986, ne è convinto: «Date a questo popolo un anno senza guerra e vedrete. Il Centrafrica è come l’erba durante la stagione delle piogge: un giorno la intravedi appena e il giorno seguente è già cresciuta di un metro».

@LeoneGrotti

Foto Leone Grotti © Tempi

[cham_piede]

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.