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Agnieszka Holland era ancora una studentessa all’Accademia delle arti e del cinema di Praga quando accaddero le vicende narrate nel suo ultimo film, The Burning Bush (Il roveto ardente), dedicato alla storia di Jan Palach, il giovane studente di filosofia che il 16 gennaio 1969 si diede fuoco davanti al Museo nazionale per ridestare l’opinione pubblica cecoslovacca dalla rassegnazione, dopo l’invasione sovietica dell’agosto ‘68 e l’avvio del processo di «normalizzazione». Prodotto da HBO, il film in tre parti di un’ora ciascuna è stato presentato al Festival di Rotterdam e al Miptv di Cannes. Palach sparisce dal film dopo le prime terribili sequenze della sua immolazione per lasciare spazio alla vicenda giuridica della querela presentata dai parenti dello studente nei confronti di Vilém Nový, un politico filosovietico che denigrò pubblicamente Palach durante un comizio.
In questa lunga e drammatica avventura, il cui esito appare scontato già dall’inizio, si intrecciano le vicende personali dei parenti di Jan – la splendida figura della madre e quella del fratello Jiří – e delle peripezie affrontate dall’avvocato Dagmar Buřešová. Quest’ultima è un’arzilla ottantenne che nella sua lunga vita ha difeso numerosi attivisti del dissenso e dopo l’89 è stata ministro della giustizia, e nel film è rappresentata dall’attrice slovacca Táňa Pauhofová.
Questo episodio gettò la società nello sconforto e spazzò via ogni residua fiducia nella riformabilità del regime comunista, come ricorda un protagonista di allora: «Quello fu l’inizio della normalizzazione e la perdita della speranza. Fu il nostro secondo agosto, e per la coscienza popolare fu molto più importante dell’agosto precedente, perché allora avevamo dimostrato di tener duro. Dopo, invece, ci siamo arresi».
Il sacrificio di Palach fu come un banco di prova per molti che dovettero decidere se rassegnarsi a una vita da «borghesi socialisti» caratterizzata dall’obbedienza a ideali a cui nessuno più credeva, dall’indifferenza e dal sospetto, oppure interrogarsi sul senso profondo dell’esistenza e della propria responsabilità. Le autorità inizialmente reagirono con una sorta di paternalismo che mascherava il terrore dell’impotenza, e successivamente passarono alla repressione silenziosa, con l’avallo di Dubček che prima di essere spodestato firmò la cosiddetta «legge del manganello» approvata per impedire nuove manifestazioni.
Una delle poche voci fuori dal coro che non si limitò a dissuadere i giovani dal ripetere il gesto di Palach (e nel film si ricordano anche le altre «fiaccole» Zajíc, Plocek e il polacco Siwiec), fu quella di Havel che definì quel gesto «un appello all’attività» contro la tentazione del «suicidio morale». Da Roma, il cardinal Beran in esilio si rivolse ai giovani cecoslovacchi leggendo un messaggio personale di Paolo VI, in cui, pur riconoscendo che era stato «un atto di amore verso la patria», sottolineava che «uccidersi non è mai un gesto umano» e concludeva con una benedizione profetica: «Nel silenzio e nella speranza sarà la vostra forza».
Il contraccolpo del gesto solitario e, come scrisse don Giussani, «sproporzionato» di Palach, aveva favorito lentamente la nascita di una mentalità costruttiva nuova, le cui origini sono così ben documentate dal film della Holland, che speriamo di vedere presto anche in Italia.
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