Novanta. È la percentuale dei bambini Down che vengono uccisi ogni anno in Gran Bretagna prima di nascere. Centodue. È il numero annuo di bambini in più a cui sarà diagnosticata la malattia se il governo inglese approvasse l’uso di un nuovo test prenatale sul sangue materno. Tredici. Sarebbe la percentuale dell’ulteriore riduzione delle nascite. «Abbiamo protestato contro questa nuova forma diagnostica perché mira alla selezione genetica senza capire che i disabili sono pieni di potenzialità e che, come ogni essere umano, hanno i loro problemi». Lynn Murray, membro dell’associazione internazionale Savingdownsyndrome e mamma di Rachel, sedicenne affetta da sindrome di Down, spiega a tempi.it le ragioni della mobilitazione, avviata dopo che il “Consiglio nazionale diagnostico” inglese ha approvato l’uso del nuovo esame genetico, «affinché il governo non dia il via libera».
Con quali ragioni vi opponete all’approvazione dello screening da parte del ministero della Salute?
Non tutto quello che funziona è etico; questi test vengono usati per selezionare i bambini. Si sente parlare in tutti i modi di uguaglianza e di non discriminazione, che sono diventati degli imperativi, ma chi parla della discriminazione dei disabili e chi difende i loro diritti? Si esaltano i portatori di handicap solo quando ci sono le paralimpiadi e solo perché in quell’occasione riescono a fare qualcosa. Ma il valore delle persone non sta nella loro riuscita.
Questa mentalità pervade ogni aspetto della nostra società. Cosa ci può fare il governo?
Anziché alimentare la paura della diversità, dovrebbe far parlare le persone che vivono in condizioni come questa, dare voce ai loro familiari e aiutare le persone che hanno bambini disabili. Invece vogliono controllare ogni gravidanza investendo soldi nel raffinamento delle tecniche di diagnosi prenatale. Ma a quale bisogno rispondono? Certamente non a quello delle mamme e delle famiglie, cui invece andrebbe dato conforto, ma a quello del mercato.
Quale sarebbe il vero bisogno di una madre e di un padre?
Quello di sapere che suo figlio è un dono. Quando è nata Rachel all’inizio ho pensato: «Oh mio Dio». Ma poi ho capito che sarebbe stata esattamente come i suoi fratelli, piena di risorse e con i suoi problemi. Non esistono i figli perfetti. Mia figlia mi ricorda che l’idea di perfezione che ci viene data dai media è falsa. Un bambino può nascere sano e bello ma chi ti dice che sarà felice? Che non fallirà? Che non si ammalerà? Rachel, come ogni mio figlio, ha qualcosa da insegnarmi.
E cosa le insegna Rachel?
A guardare le cose con semplicità. È disinibita, saluta tutti con naturalezza, a scuola o per strada. È buona, non sa cosa sia l’egoismo o la vanità. E poi è simpatica, i suoi fratelli le vogliono molto bene. Poi ha i suoi difetti come tutti.
Non teme il fatto che sua figlia debba crescere in un contesto in cui cui le persone handicappate sono guardate con diffidenza, in un mondo in cui non dovrebbero avere posto?
Devo dire che non è facile sopratutto ora che frequenta le superiori: gli insegnanti e i terapisti non vorrebbero nelle scuole le persone affette dalla trisomia 21, perciò, invece che supportati, ci si sente esclusi. Insomma, a volte fa paura, ma chi non teme per i suoi figli, che potrebbero, ad esempio, essere emarginati o prendere cattive strade? Devo dire che proprio da questo punto di vista mi ritengo fortunata. Paradossalmente, chi mi aiuta a guardare al futuro con positività è sempre mia figlia: è comunque felice e non dà troppo peso al giudizio altrui.
Cosa ci perde una società che cerca di scansare il peso della malattia?
Se eliminiamo chi ha bisogno eliminiamo una parte di noi. Eliminiamo la possibilità di dare e ricevere amore.