Te Deum laudamus per le croci rialzate a Bartellah
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Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 29 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti) e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2016 Tempi ospita i contributi di Benedict Nivakoff, Alex Schwazer, Rone al-Sabty, Ilda Casati, Luigi Amicone, Siobhan Nash-Marshall, Tiziana Peritore, Therese Kang Mi-jin, Anba Macarius, Roberto Perrone, Pier Giacomo Ghirardini, Farhad Bitani, Maurizio Bezzi, Renato Farina, Pippo Corigliano, padre Aldo Trento, Mauro Grimoldi. Il prossimo numero di Tempi sarà in edicola da giovedì 12 gennaio 2017.
Fuggito in Kurdistan con la famiglia poco prima che la sua Bartellah fosse invasa dall’Isis nell’agosto 2014, Rone al-Sabty si è unito come miliziano giornalista alle Forze della Piana di Ninive, una brigata cristiana che si batte al fianco dell’esercito iracheno per la liberazione delle città cristiane del paese.
Mi chiamo Rone al-Sabty, ho 30 anni e sono originario di Bartellah, una cittadina della Piana di Ninive. Sono io l’uomo con la divisa nera da incursore notturno e la telecamera sull’elmetto nel video dove si vedono e si sentono suonare le campane della chiesa di Santa Simona, la più importante di Bartellah. È una chiesa siro-ortodossa, come cristiano siro-ortodosso sono io e lo sono la grande maggioranza degli abitanti di questa località, occupata dall’Isis nell’agosto 2014.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Fuggimmo tutti poche ore prima dell’arrivo dei terroristi, perché non potevamo mettere in pericolo le vite dei miei anziani genitori, della famiglia di mio fratello e di quelle delle mie sorelle. Da allora abbiamo vissuto a Erbil, nel Kurdistan iracheno, ma alcuni di noi sono emigrati all’estero, con mio grande dispiacere. Io ho continuato il mio lavoro di cameraman per una tv cristiana che si chiama Suroyo, cominciato quando avevo 22 anni, ma sono anche entrato a far parte di una milizia popolare cristiana che si chiama Forze della Piana di Ninive (Ndf). Il loro obiettivo è partecipare alla liberazione delle città interamente abitate da cristiani e successivamente garantire la loro protezione in modo indipendente. Mi sono unito a loro come miliziano giornalista: la mia arma più importante è la videocamera con cui diffondo le immagini dei nostri combattenti e delle loro azioni.
Quando ho saputo che le forze armate irachene stavano per attaccare le posizioni dell’Isis a Bartellah, ho chiesto di poterli seguire insieme ad alcuni combattenti delle Ndf, e quando siamo entrati nel nostro paese sono corso insieme ad alcuni alla chiesa di Santa Simona. Io ho afferrato la fune della campana, che era ancora al suo posto nonostante la chiesa fosse stata devastata, e ho cominciato a suonare a distesa: ero il primo a farlo dopo due anni e tre mesi di silenzio delle nostre campane. Nel video dico che le forze diaboliche non hanno potuto far tacere per sempre le campane, dico che le parole di Nostro Signore Gesù non potranno mai essere messe a tacere nei secoli dei secoli, e poi tutti insieme diciamo «lunga vita ai soldati delle Ndf!».
Dovete capire che tutti i ricordi della mia vita abitano fra le vie e le case di Bartellah: la mia infanzia, la scuola elementare e quella superiore, i compagni di gioco e quelli di scuola. Ci vorrebbero tutte le pagine del vostro giornale per raccontare. Ogni giorno era una scoperta, ogni giorno era qualcosa di completamente nuovo, non era mai la routine della vita come ho visto che si vive in Europa. Vivevamo tutti sotto lo stesso tetto e a tavola non solo condividevamo i pasti, ma parlavamo di tutto: della nostra religione cristiana, della società, delle tradizioni e delle nostre abitudini. Da bambino andavo in cortile ad aspettare il ritorno di mio padre dal lavoro quando si avvicinava l’ora. Non appena scendeva dall’auto gli correvo incontro, prendevo quello che aveva in mano, lo precedevo e aprivo la porta di casa gridando: «Mamma, papà è tornato! Andiamo subito a tavola perché ha tanta fame!».
Arrivato coi soldati a Bartellah, ho cercato di andare alla nostra casa di famiglia. Il primo giorno non è stato possibile, perché un terrorista dell’Isis ancora sul posto aspettava che ci avvicinassimo per ucciderci in un attentato suicida. Il giorno dopo, tolto di mezzo lui, sono riuscito ad accedere alla casa a metà del pomeriggio. Le stanze all’interno erano buie, perché tutto l’impianto elettrico era stato smontato e razziato. Mi facevo luce con un riflettore televisivo, e avanzavo col fucile spianato perché temevo ci fosse ancora qualche miliziano Isis nascosto all’interno. Quando finalmente ho capito che non c’erano estranei, ho cominciato a illuminare le pareti e i pavimenti.
Ho visto che tutto era stato rubato e che sui pavimenti c’erano oggetti distrutti o deturpati. C’erano vecchie fotografie di famiglia strappate, immagini di santi e croci fatte a pezzi. Mi sono fermato nel mezzo della casa e ho cominciato a piangere a bassa voce, per non farmi sentire dai miei amici che erano fuori. Poi ho raccolto un po’ delle nostre fotografie strappate e ho cominciato a cantare alcune preghiere. Gli amici mi hanno chiamato fuori perché cominciava a fare buio e sono dovuto uscire. Stavo veramente male, pensando a quello che era successo e al fatto che quei misfatti non erano opera di stranieri, ma di altri iracheni che abitavano poco distante.
Io e i miei compagni abbiamo giurato che dopo aver rialzato le croci sulle chiese di Bartellah, rialzeremo le croci anche sulle chiese di Mosul quando sarà liberata. Attualmente andiamo nei villaggi cristiani per metterli in sicurezza, cerchiamo le trappole esplosive per disinnescarle. Alla fine di quest’anno, io ringrazio Dio non soltanto per la liberazione della mia città, ma per tutte le cose che ho imparato in questi due anni di esilio. Adesso sono certo che non bisogna mai perdere la speranza in Dio. Quando l’anno finirà, io pregherò: «Grazie, Dio, perché la mia famiglia e il mio popolo sono al sicuro, la nostra terra è stata liberata e noi torneremo a suonare le nostre campane e a rialzare le croci sui tetti delle nostre chiese».
Foto Ansa
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