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Sud Sudan. «Sono entrati negli ospedali per uccidere le persone ricoverate»

Intervista a Enrica Valentini, direttrice del Network delle radio cattoliche in Sud Sudan: «Uccisioni casa per casa. Non c'è neanche una famiglia che non abbia un morto da piangere»

Leone Grotti
30/01/2014 - 17:44
Esteri
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«A Malakal ormai non c’è neanche una famiglia che non abbia un morto da piangere e lì vivono circa 300 mila persone». Basterebbe questo dettaglio per farsi un’idea della violenza che ha investito la capitale dello Stato dell’Alto Nilo in Sud Sudan a metà gennaio. E nonostante il “cessate il fuoco”, entrato in vigore il 24 gennaio tra le forze del presidente Salva Kiir e del vicepresidente deposto Riek Machar, le violenze stentano a fermarsi.
«Nessuno ha contato i cadaveri a Malakal e le linee telefoniche sono ancora interrotte ma i testimoni oculari con cui ho parlato erano inorriditi», racconta a tempi.it Enrica Valentini, direttrice del Network delle radio cattoliche in Sud Sudan, l’unico mezzo di comunicazione in molte zone del paese.

«VIOLENZA INAUDITA». «C’erano già stati scontri in quella città. Alla vigilia di Natale erano stati distrutti i mercati. Intorno al 14 gennaio, invece, ci sono stati saccheggi in tutte le case, visto che non c’era nient’altro da razziare», continua Valentini. Alimenti, automezzi, moto: tutto è stato rubato ma a colpire degli scontri tra governativi e antigovernativi «è l’inaudita violenza e l’odio con cui sono stati commessi i crimini».

«UCCISIONI CASA PER CASA». Gli scontri tra gli uomini di Kiir e Machar, che dovrà rispondere in tribunale di tentato colpo di Stato, è cominciato il 15 dicembre e ha già causato 10 mila morti e almeno 500 mila sfollati. «Chi era a Malakal mi ha detto che tanta violenza non si era mai vista, neanche durante la guerra con il Sudan», che ha causato due milioni di morti.
«Le forze antigovernative sono entrate negli ospedali per uccidere le persone ricoverate, la città è stata distrutta e non solo fisicamente. Entravano in tutte le case e dicevano: “Datemi tutto quello che avete”. Chi opponeva resistenza veniva ucciso al momento. Questa violenza gratuita e devastante è spaventosa».

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SFOLLATI RIFUGIATI IN CHIESA. Una violenza, spiega Valentini, che non risparmia nessuno: «È scoppiato l’odio dentro le famiglie, tra fratelli, tra membri della stessa comunità. L’elemento tribale sicuramente c’entra ma è difficile confermarlo».
Le persone rimaste sfollate non si contano, sono decine di migliaia, rifugiate nelle parrocchie della Chiesa cattolica, nelle missioni dell’Onu, negli orfanotrofi o nei villaggi dove non ci sono scontri.

IN FUGA NELLE FORESTE. L’Alto Nilo è lo Stato, insieme a Unity e Jonglei, lungo il confine con il Sudan dove sono presenti ricchi giacimenti di petrolio e dove si concentrano i combattimenti. «Ora ci sono movimenti e tensioni anche nello Unity State ma i telefoni non funzionano ed è difficile capire che cosa succede e chi sta combattendo, se le forze che hanno firmato il “cessate il fuoco” o altre fazioni finora sconosciute. La gente però sta scappando dai villaggi e si sta rifugiando nelle foreste».

IL LAVORO DELLA CHIESA. Oggi i vescovi della Chiesa cattolica sono riuniti nella capitale Juba e domani faranno uscire un comunicato: «C’è molta preoccupazione da parte della Chiesa. Di sicuro stanno parlando di come alleviare le sofferenze della popolazione dal punto di vista pratico ma anche da quello spirituale. C’è bisogno di riconciliazione in tutti i sensi».

@LeoneGrotti

Tags: alto nilochiesa cattolicachiesa sud sudanCristianiguerra sud sudanjongleijubakiirmacharmalakalsud sudansudan
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