Con l’ammissione da parte della corte Costituzionale di uno dei quesiti referendari proposti dalle Regioni, si torna a parlare in Italia di trivellazioni. Cosa è accaduto e cosa c’è in ballo? Vediamo di fare un po’ di chiarezza (chi volesse approfondire ulteriormente può leggere la nostra recente intervista a Paolo Scaroni, ex ad di Eni).
IL REFERENDUM. Un passo indietro per fare un rapido quadro della situazione. Dieci Regioni italiane (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Veneto, Calabria, Liguria, Campania, Molise) avevano proposto sei referendum sulle attività di ricerca e sfruttamento degli idrocarburi in mare. In sostanza, le Regioni, da cui poi si sfilò l’Abruzzo, volevano mettere al bando le trivellazioni entro le 12 miglia dalla costa. Dopo la pronuncia favorevole della Cassazione, il governo è corso ai ripari modificando la legge di Stabilità e venendo incontro alle richieste delle nove amministrazioni. Ma al contempo il governo ha concesso 326 autorizzazioni, su terraferma o in mare, lasciandole fuori dal divieto e permettendo le trivellazioni per la «durata della vita utile del giacimento». Qualche giorno fa, dunque, la Corte Costituzionale ha bocciato cinque dei sei quesiti referendari, ma ha ammesso quello che mette ai voti proprio la durata dei titoli per sfruttare i giacimenti autorizzati dal governo.
PROBLEMA ENERGETICO. L’altro giorno un articolo di Repubblica riportava un po’ di dati tratti dagli studi di Assomineraria, l’associazione di settore di Confindustria. Ciò che è ormai stranoto, per quanto riguarda l’energia, è che il nostro paese dipende dall’estero. Se confrontiamo il nostro fabbisogno alla media europea, la questione si fa drammatica. Se il fabbisogno dei paesi del Vecchio Continente si attesta al 53 per cento, per noi è all’82. «E, particolare significativo – scriveva Repubblica –, questo divario è rimasto sostanzialmente immutato dagli anni Settanta ad oggi». Se poi ci si aggiunge che i paesi da cui importiamo il 60 per cento dei quantitativi di petrolio e gas (Algeria e Russia) vivono situazioni politiche poco lineari, si comprende perché siamo sempre in difficoltà su questo fronte. «Nel 2011 abbiamo pagato 63 miliardi di euro, il 4 per cento del pil». E chi pensi che le fonti alternative possano aiutarci rimarrà deluso: «Nel 2025 continueremo a dipendere per il 74 per cento da petrolio e gas (rispettivamente 35 e 39 per cento del fabbisogno nazionale) mentre l’incidenza delle energie rinnovabili non supererà il 15 per cento (era l’11 nel 2010)».
RISPARMI. Eccoci dunque arrivati a parlare dei nostri giacimenti. «I numeri sono chiari. Dai pozzi italiani nel 2014 sono stati estratti 5,7 milioni di tonnellate di petrolio e 7,3 miliardi di metri cubi di gas naturale. Cifre importanti. Perché rappresentano il 10,3 per cento del fabbisogno di petrolio e l’11,8 del consumo di gas del Paese. Tutto questo ci fa risparmiare ogni anno 4,5 miliardi di euro sulla bolletta energetica». Risultati buoni, ma migliorabili: «Le potenzialità di miglioramento della bilancia energetica sembrano significative. Nel 2010 si stimava che i giacimenti petroliferi in territorio italiano non sfruttati valessero 187 milioni di tep, le tonnellate equivalenti di petrolio».
Con l’apertura di nuovi pozzi, infatti, dicono gli studi di settore, si potrebbero «raddoppiare la produzione di petrolio e gas entro 15 anni. Passando da 11,9 milioni di tep (5,3 di petrolio e 6,6 di gas) a 21,6 milioni di tep complessivi. Un salto notevole che porterebbe da 4,5 a 9 miliardi di euro il risparmio sulla bolletta energetica italiana a prezzi costanti».
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