
Stagnaro (Ibl): «Declassamento S&P scontato. Dobbiamo liberalizzare»
La notizia del declassamento dell’affidabilità economica dell’Italia da parte dell’agenzia di rating Standard&Poor’s, ha agitato le acque, già poco calme, degli ambienti politici e finanziari, non solo italiani. L’autorevolezza di questa agenzia e la timidezza del Governo sulla manovra economica appena varata, sono problemi distinti, ma, che in queste ore, si stanno sovrapponendo.
Il mancato allarme sulle reale situazione di Lehmann Brothers, che diede vita alla bolla finanziaria in America nel 2007, non ha tolto fiducia nei giudizi di Standard&Poor’s?
«Io credo che la critica principale da fare alle tre maggiori agenzie di rating sia l’opposto: il denunciare una situazione, quando ormai il guaio è già accaduto» dice, rispondendo a Radio Tempi, il direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, Carlo Stagnaro. «Che l’Italia avesse dei problemi sul bilancio pubblico lo sapevamo tutti e non da oggi. I mercati stessi hanno ignorato il giudizio dell’agenzia, perché non aggiungeva nulla di nuovo. Ed è il nostro ceto politico che dovrebbe prenderne atto e fare tutte quelle mosse che servano per tranquillizzare i mercati. Se parliamo di lentezza ad accorgersi della realtà sia Standard&Poor’s sia il Governo possono essere accomunati: ci siamo accorti di essere nel pieno dell’emergenza solo il 13 agosto scorso e si è dato vita ad un decreto che è stato più volte cambiato e che ora ci si accorge che potrebbe essere insufficiente».
Lunedì 19 settembre, voi dell’Istituto Bruno Leoni, avete presentato un documento dove fate il punto sulla situazione delle liberalizzazioni in Italia. Quali sono i dati più importanti che emergono?
L’Italia è un paese che ha liberalizzato relativamente poco: il voto che il documento esprime è di un 49 per cento di realizzazioni, lo stesso dal 2007. Vuol dire che qualcosa è stato fatto e molto resta da fare. Aprire ai mercati, alla concorrenza vuol dire passare alla crescita economica. Se vogliamo tornare a crescere dobbiamo liberalizzare. Da Draghi a Tricher, dal Fondo monetario internazionale all’Ocse, tutti ci ricordano che noi cresciamo così poco, ben prima di questa crisi, perché questo paese si porta dietro una zavorra di rendite. Se vogliamo tornare a crescere dobbiamo incidere su queste rendite.
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Perché in una manovra economica seria sono importanti privatizzazioni e liberalizzazioni?
Vuol dire creare concorrenza e mettere così in moto innovazione. Consentire all’offerta dei servizi di essere plurale e ai prezzi, a parità di condizioni, di ridursi. Lo notiamo nella nostra esperienza quotidiana, dove la liberalizzazione ha avuto successo, il servizio è migliorato e il prezzo è calato: penso alla telefonia mobile e penso anche ad un settore come l’energia elettrica, dove forse la percezione non è immediata se depuriamo i prezzi dagli andamenti internazionali, vediamo che tutto ciò che si poteva contenere è stato contenuto, mantenendo la qualità del servizio.
Non neghiamo che esistono obiezioni sull’espansione delle liberalizzazioni: concretamente, quanto incidono, una volta operative, sull’occupazione?
Per creare occupazione bisogna avere crescita economica e quindi, nella misura in cui le liberalizzazioni hanno successo, producono occupazione. Non sono, però, effetti immediati, si prolungano nel tempo. Liberalizzare vuol dire mettersi davanti ad un mondo del lavoro che cambia; vuol dire ridurre l’impiego in alcuni settori che hanno un eccesso di organico, penso all’universo dei trasporti pubblici locali, che ha problemi di costo del lavoro eccessivo, che è figlio di logiche assistenziali e clientelari. Contemporaneamente, liberalizzare vuol dire creare opportunità di occupazione altrove: generalmente i settori che vengono liberalizzati conoscono nel medio termine una crescita dell’impiego e rendono possibile posti di lavoro in altri settori che diventano competitivi.
C’è l’annoso problema di una liberalizzazione mancata, un “cartello” duro a morire che è quello delle imprese petrolifere. Il costo della benzina che doveva già abbassarsi in estate e ora con l’aumento dell’Iva è tra i prodotti che hanno subito il rincaro più alto, con un effetto domino sulla distribuzione delle merci su gomma e sui prezzi al dettaglio. Risolveremo mai questa “anomalia” tutta italiana?
Nel caso del prezzo dei carburanti sono coinvolte molte questioni contemporaneamente: la prima è il ruolo della fiscalità, difficile che il prezzo scenda se le tasse continuano ad aumentare. Negli ultimi mesi ci sono stati tre interventi governativi di tassazione: sono aumentate le accise (circa 4 centesimi), è aumentata l’Iva dal 20 al 21 per cento, ed è stata creata la cosiddetta “Robin Hood tax” cioè l’addizionale sull’aliquota Ires per tutte le imprese del settore energetico che in un modo o nell’altro finirà per riversarsi sui consumatori. Poi c’è un problema di concorrenza che non riguarda il “piano di sopra” delle imprese, che sono costantemente monitorate dall’Antitrust, ma riguarda piuttosto l’organizzazione del settore del “piano di sotto”: una rete di distribuzione molto inefficiente che non tiene conto della vendita di altri generi correlati all’uso dell’auto e del servizio a chi viaggia. Norme urbanistiche che stoppano l’ingresso della grande distribuzione e una cultura che rende incompatibile la vendita del carburante e la vendita di tabacchi e giornali, impediscono la riorganizzazione del settore. Come Istituto Bruno Leoni, abbiamo recentemente realizzato uno studio in cui si evidenzia che dove i supermercati hanno potuto aprire una pompa di benzina, il prezzo del carburante è sceso intorno ai 4 – 5 centesimi e anche più, anche nelle stazioni adiacenti.
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