Sotto assedio

Di Gian Micalessin
21 Dicembre 2006
Il governo prigioniero nella capitale è la metafora perfetta di un Libano ancora una volta ridotto a fare il vaso di coccio nel gioco di potere di altri. Siria e Iran in testa

Beirut (Libano)

I calzini, tre paia, s’asciugano sul calorifero. A tre metri dalla scrivania. La bandiera di un ministro assediato tra le mura del Gran Serraglio, nella fortezza ottomana palazzo e prigione di governo. Ahmad Fatfat sorride. Con sforzo. La parola assediato non gli piace. Fa spallucce, ma il brivido c’è. Da ministro dell’Interno ha passato qui i 34 giorni della guerra d’estate, quella sotto le bombe d’Israele. È di nuovo qui, con il premier Siniora e gli altri, dal 21 novembre, dall’assassinio di Pierre Gemayel. «Basta l’assassinio di altri due di noi e il governo cadrà», spiega con la smorfia di chi conosce le regole della roulette russa. Guarda dalla finestra. «Sono qui sotto, ma non sono il Libano». Sono lì dal primo dicembre. Campeggio di tende e bandiere, ragazzini e militanti di Hezbollah. Un arcobaleno di colori, una cacofonia di cori. I gialli di Hezbollah il Partito di Dio sciita. Gli arancioni del generale Michel Aoun, il Badoglio cristiano cacciato dai siriani nel 1991 e diventato, dopo14 anni d’esilio, loro fedele alleato. Taftaf li guarda e sorride.
«Vogliono farvi credere che sia l’Ucraina, ma questo è il Libano, le elezioni le abbiamo vinte, non ce ne andremo». Le elezioni sono quelle del giugno 2005. Rafik Hariri, l’ex primo ministro, il miliardario convinto di poter fare a meno della Siria, è stato dilaniato da una bomba quattro mesi prima. Le dimostrazioni di piazza cacciano i siriani. Il figlio di Hariri uomo simbolo dei sunniti, i drusi di Walid Jumblatt, i cristiani di Samir Geagea vincono le elezioni. Fouad Siniora, l’ex ministro delle finanze di Rafik Hariri nomina 23 ministri, concede tre poltrone ad Hezbollah, due agli sciiti di Amal e una ad un fedelissimo del presidente filo-siriano Emile Lahoud. Doveri istituzionali di un Libano dove i governi si costruiscono con il bilancino etnico confessionale, con le regole degli accordi di Taif del 1989, con la legge elettorale studiata da Damasco per tenere suddito il paese. Siniora e i suoi ministri assediati ne scontano le conseguenze.
Provano sulla propria pelle l’assedio di un paese al crocevia tra mondo sunnita e sciita, al centro dello scontro tra Iran e Stati Uniti. Nel 1975 questo mosaico di religioni, comunità e stili di vita fu il primo pezzo di Medio Oriente ad esplodere, il primo a consumarsi in 14 anni di feroce guerra civile. Il risultato allora fu la scomparsa dei cristiani. La loro trasformazione in pedine dei nuovi potenti. Oggi è il teatro di prova del prossimo conflitto mediorientale. Quello iniziato con l’avanzata sciita iraniana in Iraq. Quello pronto ad attraversare Iran, Iraq per imporre, con la complicità della dinastia alauita al potere a Damasco, l’egemonia sciita sul Libano.

Il capolavoro di Ahmadinejad
Sarà il capolavoro della Repubblica islamica. Ha conquistato l’Iraq sfruttando l’occupazione americana e alimentando la corsa al potere delle milizie sciite. Ha assistito impassibile alla cacciata della Siria dal Libano trasformandola nel proprio servitore. È pronta ad assumere il controllo del Paese dei cedri attraverso Hezbollah, il partito di Dio fondato dai suoi pasdaran 24 anni fa. Un colpo al cuore agli Stati Uniti che qui, dopo la cacciata di Damasco, annunciarono la prima vittoria democratica in Medio Oriente. Un calcio all’illusoria “détente” di Jacques Chirac, sicuro di poter dialogare con il nemico e proteggere l’antica colonia. Una sfida mortale all’Arabia Saudita e al potere sunnita in Medio Oriente. Una terrificante finestra aperta sul nord d’Israele. Un altro passo verso lo scontro finale con lo stato ebraico che Ahmadinejad sogna di cancellare.
Il progetto in scala ridotta è disegnato qui nel cuore di Beirut. I militanti di Hezbollah occupano piazza Riad el Solh ai piedi del Gran Serraglio. Manipoli di reduci senz’armi in congedo dalle trincee del sud formano i primi tre cerchi concentrici. Dietro a Place des Martyrs bivaccano i cristiani del Badoglio-Aoun, i drusi filo siriani e tutti gli altri. «Gli utili idioti», sussurra Fatfat. Gli “utili idioti” giurano di voler solo un governo più ampio, con 27 ministri di cui dieci scelti da Amal, Hezbollah e cristiani di Aoun. Ottenendo quel terzo più uno di poltrone potranno, secondo la Costituzione, imporre il veto su qualsiasi decisione o dimettersi e spingere il paese a nuove elezioni. Tra quelle tende lo stesso Mahmoud Komati, numero due dell’ufficio politico di Hezbollah, ammette che il nocciolo della questione è il di-sarmo di Hezbollah: «Controllando un terzo più uno dei ministri il governo non potrà imporci alcuna decisione».
Non potrà decidere la consegna delle armi di Hezbollah all’esercito libanese e alle forze dell’Unifil nel sud del paese, né ratificare la creazione di una corte internazionale per giudicare i mandanti dell’assassinio Hariri. Non potrà, soprattutto, impedire le influenze dei grandi protettori di Hezbollah. «Alì Khamenei, la suprema guida iraniana, lo ha detto, vuole usare il Libano come cavallo di battaglia contro l’America, per loro – spiega il ministro Fatfat – siamo un capitolo nei piani per l’egemonia regionale. Vogliono un Libano integro e unito, ma controllato politicamente. Mentre per Damasco un Libano dilaniato può spingere la comunità internazionale ad accettare un ritorno al passato».
Il grande risiko del Libano è tutto in quelle parole. Il mondo può accettare di farlo scivolare docilmente tra le mani di Teheran, può regalare il Libano ad Hezbollah e chiudere gli occhi sull’inevitabile futura tragedia dello scontro finale con Israele. Può anche lasciarlo precipitare nella guerra civile e poi offrirlo alla Siria. In cambio potrà sempre ottenere una rottura dell’alleanza con l’Iran e un ritorno a fianco dell’Occidente. È già successo nel 1990, alla vigilia della prima guerra di Saddam.

Il grande risiko
Può anche, come suggerisce il sunnita Fatfat a nome di Siniora, illudersi di poter fare a meno di Washington e scegliere il surrogato saudita. «L’America qui fa i propri interessi o aiuta Israele. Non possiamo contarci. I sauditi e gli altri paesi arabi invece ci sostengono, sanno di dover evitare questo golpe, conoscono le pericolose ingerenze di Iran e Siria».
Per ora Washington e Parigi hanno scelto la terza via. Hanno scelto di mandare avanti i sunniti e di spingere dietro a loro. Hezbollah il 10 dicembre ha portato in piazza un milione di persone, un quarto del paese, ma alla fine ha esitato, non ha sferrato la spallata finale, quella capace di far cadere il governo Siniora, ma anche di trascinare nell’abisso il paese. Il futuro si gioca sul filo del rasoio. La Siria propone a Israele trattative di pace e studia il grande salto, l’abbandono di Teheran in cambio del Libano e delle alture del Golan. Ma Bashar Assad il suo presidente sa che solo Teheran può proteggerlo da una maggioranza sunnita pronta, su ordine saudita, a sbarazzarsi di lui e della sua dinastia alauita. Riad da parte sua vuole ridimensionare il potere iraniano e conservare la concessione su questo paradiso fiscale, farlo ridiventare la principale piazza finanziaria e il luogo di villeggiatura per gli sceicchi del petrolio. Gli Stati Uniti sembrano un’altra volta immobilizzati, incapaci di decidere. I libanesi attendono. Anche stavolta qualcuno si dividerà il paese. Anche stavolta la sola cosa importante sarà sopravvivere.

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