Solo Giannini e Riotta potevano trasformare Alika Ogochukwu nel “Floyd d’Italia”

Di Caterina Giojelli
02 Agosto 2022
Un bianco uccide un nero, per la Stampa è l’occasione per «rilanciare una campagna elettorale degna», per Repubblica «un test morale». Un paragone, quello con l’afroamericano ucciso da un poliziotto, che più strumentale non si può
Fiori e biglietti deposti a Civitanova Marche sul luogo dove l'ambulante nigeriano Alika Ogorchukwuch è stato ucciso da Filippo Ferlazzo
Fiori e biglietti deposti a Civitanova Marche sul luogo dove l'ambulante nigeriano Alika Ogorchukwuch è stato ucciso da Filippo Ferlazzo (foto Ansa)

A proposito di sciacallaggio elettorale, ieri Massimo Giannini titolava in prima pagina sulla Stampa: “Appello ai leader. Adesso andate tutti ai funerali del Floyd d’Italia”. Giannini in Alika Ogorchukwu non vede un ambulante nigeriano ferocemente ammazzato da un pazzo a Civitanova Marche, ma «una buona occasione per rilanciare una campagna elettorale degna di essere vissuta e seguita».

Giannini e “il Floyd d’Italia”

Il Floyd d’Italia: perché non fare di un nero con le mani di «un uomo bianco inferocito» al collo un epigono dell’afroamericano ucciso da un poliziotto bianco a Minneapolis? Sul pulpito della Stampa – lo stesso scelto da Corrado Formigli per continuare a fare predica alla Meloni  (“Cara Meloni, io faccio domande: basta speculare sugli stranieri”) – i funerali del nigeriano diventano lo stress test perché Draghi dimostri che la sua agenda «non è solo Piano vaccinale e Pnrr», perché Salvini e Meloni dimostrino che «il colore della pelle non conta», perché Conte e Di Maio dimostrino che «la battaglia contro i “taxi del mare” è stata una follia momentanea». «Andate tutti. Per dimostrare che in Italia la xenofobia e l’odio razziale non saranno mai più tollerati». Tutto grazie ad Alika, «il George Floyd italiano».

Riotta e “il nostro Floyd”

L’idea era ovviamente venuta prima a Gianni Riotta, “Perché Alika è il nostro Floyd” è il titolo in prima pagina su Repubblica domenica. Riotta se la prende con i presenti «incapaci di bloccare il braccio omicida», quando «è evidente» che il killer non avrebbe colpito «i concittadini, “bianchi”» se fossero intervenuti distogliendolo dal «raptus razzista»; se la prende con tutti quelli che usano «razza, storia, criminalità, emigrazione a caccia di voti livorosi»; e se la prende con “noi” elettori. Perché naturalmente per Riotta «ogni strumentalizzazione della morte di Alika Ogorchukwu è grottesca», ma «riconoscere quanto disprezzo, razzismo, indifferenza, ignoranza, mancanza di solidarietà – in un paese che si proclama civile e cristiano – siano visibili ovunque, città, campagne, media, scuole, Parlamento, diocesi, sarebbe primo atto di rinascita».

Civitanova come Minneapolis

Insomma, il giornalista non vuole strumentalizzare la morte di Alika Ogorchukwu, ma chiama l’ambulante “il nostro Floyd”, paragona Ferrazzo all’agente Derek Chauvin e i quattro presenti (la ragazza moldava che gira il video della morte, una vecchietta, un anziano col cane e un impiegato delle Dogane, scrivono i giornali) ai testimoni di Minneapolis, ma senza nemmeno l’alibi di essere «afroamericani» e temere «la reazione degli agenti» – qui sarebbe bene ricordare a Riotta che nel frattempo ad Avellino un nigeriano ha ucciso a martellate un commerciante cinese e che l’avventore bulgaro che ha cercato di fermarlo si trova adesso in rianimazione, ma sono omicidi che pesano poco sulla bilancia antirazzista.

E perché tanta metafora americana? Per spronarci al Black Lives Matter elettorale: «Come George Floyd ha chiamato l’America a un test morale, così Alika Ogorchukwu, che si era illuso di trovare tra gli italiani scampo alla miseria e un’accoglienza dignitosa, ci richiama al dilemma che il voto del 25 settembre coniugherà in chiave politica, senza mutarne l’essenza: che paese siamo diventati, che paese vogliamo essere per i nostri figli?».

Un accostamento assurdo

«Da dove iniziare a smontare un accostamento tanto assurdo?», si è chiesto Marco Zucchetti sul Giornale. «Forse dal fatto che già sabato gli inquirenti hanno scartato la matrice razziale del gesto», o «che il caso Floyd coinvolgeva la polizia, quindi lo Stato, mentre qui il colpevole è un privato cittadino pericoloso e già in cura per problemi psichiatrici e di aggressività, quindi al massimo lo Stato non ha vigilato. Oppure si può iniziare dalla statistica».

Quella che vede il nostro paese, nei pezzi di Riotta dominato da “violenza, disprezzo, razzismo, indifferenza e ignoranza”, al 157esimo posto nel mondo per tasso di omicidi (meglio in Europa solo Norvegia e Slovenia) e gli Usa al 64esimo posto (peggio pure del Kenya), «dato che Riotta conosce la realtà statunitense molto meglio di noi, tutto questo lo sa benissimo da sé. Così come sa che il caso Alika – come quello del tassista (bianco) ucciso per aver investito un cane, del vicino (bianco) ucciso per una grigliata, dell’anziano (bianco) ucciso per una sigaretta – testimoniano non il razzismo della nostra società, ma una sua regressione a uno stato bestiale in cui la vita perde ogni valore, forse perché la legge sarà uguale per tutti, ma la pena non è mai certa per nessuno».

Minniti contro chi cavalca la paura

A far fare però alle eminenze del Gruppo Gedi la figura della Meloni nei peggiori incubi di Formigli ci pensa la stessa Stampa. A pagina 4, dove l’inviato a Civitanova Marche cerca di strappare all’ex ministro dell’Interno Marco Minniti un endorsement a favore della lettura di Giannini del delitto («puntualmente è uomo bianco ad uccidere l’uomo nero») e un commento sulla Lega che ha ripreso a “battere” sugli immigrati. Minniti si destreggia denunciando la perdita del senso di comunità («Chiamiamo le cose con il loro nome: viviamo nel sentimento della paura e della indifferenza, aggravato dal massimo di individualismo»), ricorda che compito dello Stato è stare vicino ai più deboli («non è accettabile che la vittima fosse costretta a chiedere l’elemosina in strada dopo ben 10 anni che viveva in Italia. Ma anche l’aggressore, da quel che leggo, non era neanche lui integrato nella società, aveva problemi psichiatrici, ed era un altro lasciato da solo»).

Soprattutto Minniti chiede alla politica di «non cavalcare e alimentare le paure per calcolo elettorale», «una democrazia non può permettersi di evocare le paure. E lo dico alla sinistra come alla destra», «il sentimento della paura può seriamente corrodere una società e una democrazia». Praticamente un editoriale sulla Lega e su chi va specularmente agitando lo spettro di Floyd sulla tomba di Alika Ogorchukwu.

Vergogna e paura. Degli omofobi

Dulcis in fundo, nell’articolessa “Chi ha paura di un bacio gay?” compare un boxino col titolo: “Aggrediti in centro da due omofobi”. «Ci hanno insultati perché indossavamo un crop top, con la pancia scoperta. Ci hanno pedinati, scherniti, aggrediti», denuncia Marco, 18 anni, raccontando l’assalto in centro a Torino, durante il quale uno dei suoi amici si è preso un pugno, «poi hanno tirato fuori un coltellino». Gli aggressori? «Due nordafricani, sui 16 anni, ci hanno insultati perché gay». Su Repubblica il box si allarga “Insultati e aggrediti in centro. ‘Ma nessuno è intervenuto’”: «Ci hanno urlato “finocchi”, poi ci hanno inseguiti e uno ha mostrato il coltellino», «Quella violenza vuole farci tornare nell’ombra, nella vergogna, nella paura. La riconosciamo e la denunciamo». Gli aggressori? «Due ragazzi di 16 anni, probabilmente nordafricani». E sicuramente meno utili del povero Alika Ogorchukwu alla strumentalizzazione elettorale.

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