Le competenze digitali non si imparano su TikTok

Di Piero Vietti
22 Agosto 2024
I danni degli smartphone alla salute di bambini e adolescenti sono ormai una certezza, ma dato che indietro non si torna, come si può educare a vivere in un mondo digitalizzato? Al Meeting di Rimini un incontro su social e intelligenza artificiale
Meeting incontro social e smartphone
Luca Botturi, Alberto Pellai e Fabio Mercorio sul palco del Meeting durante l'incontro su smartphone e social network (foto Flikr Meeting di Rimini)

Regalereste I promessi sposi a un bambino di prima elementare? E l’antologia di Peppa Pig a una sedicenne? No, anche se sembra inutile precisarlo: a ognuno servono stimoli adeguati all’età per crescere, svilupparsi e avere coscienza di sé e del mondo. Negli ultimi decenni le automobili sono diventate sempre più sicure, eppure – altra precisazione inutile – nessuno si sognerebbe di farle guidare a un dodicenne. Perché allora lo psicologo dell’età evolutiva, scrittore e saggista Alberto Pellai ha voluto precisarlo, parlando ieri al Meeting di Rimini? Perché quello che i social network hanno fatto negli ultimi dodici anni è stato proprio dare stimoli inadeguati ai ragazzi che li utilizzano, e quello che hanno fatto adulti e genitori mettendo nelle mani dei figli gli smartphone è stato come metterli alla guida di automobili.

«Fino a dieci anni fa c’era un tecnoentusiasmo esagerato», ha detto Pellai intervenendo per primo all’incontro Social e intelligenza artificiale: non serve lo schermo per crescere smart, «che ha accelerato l’ingresso del digitale nella vita dei bambini senza che ci fosse un criterio». Parliamo di strumenti complessi che persino molti adulti non sanno usare, ha detto dialogando con Fabio Mercorio, professore di Computer Science all’Università Milano Bicocca, e Luca Botturi, professore in media in educazione presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana. Con loro, a parlare in differita di come lo sviluppo del digitale ha cambiato le nostre vite impattando in modo negativo soprattutto sulla salute dei minori, anche Maryanne Wolf, Ucla University e membro della Pontificia Accademia delle Scienze.

I quattro rischi di un uso eccessivo degli smartphone

L’anno chiave è stato il 2012, ha spiegato Pellai a una platea numerosissima composta soprattutto da ragazzi, genitori e insegnanti: è l’epoca in cui i cellulari sono diventati smartphone, cambiando da strumento di comunicazione a strumento di connessione e navigazione. Apple ha messo sul mercato da poco l’iPhone 4, quello con una telecamera davanti e una dietro: da lì iniziamo a gestire la nostra identità online con foto e video, soprattutto i ragazzi «tengono in mano due vite, una reale e una digitale, che non sempre si integrano e completano». Il 2012 è l’anno dopo il quale tutti gli indicatori della salute mentale di adolescenti e bambini iniziano a peggiorare in modo esponenziale, sottolinea Pellai.

Depressione, insicurezze, rabbia… Tempi ha spesso raccontato i danni che un uso eccessivo di device e social provocano sui ragazzi. Pellai sintetizza quattro fattori di rischio principali, documentati ormai da moltissime ricerche scientifiche: deprivazione del sonno, deprivazione sociale («un tempo la punizione era: “stai in camera tua”, ora è “ti tolgo il wifi se non esci un paio d’ore”), frammentazione dell’attenzione, dipendenza.

Pellai racconta di bambini “patatoni” che all’insaputa dei genitori visitano compulsivamente siti per adulti e di undicenni che si alzano di notte mentre mamma e papà dormono per giocare a Fortnite: «Il mondo online è basato su sistemi dopaminergici», sfruttano la produzione di dopamina da parte del cervello dei ragazzi, un ormone che dà una gratificazione istantanea e che spinge a ricercare in continuazione l’oggetto che ha prodotto quella scarica: «I ragazzi sono ferro, il mondo digitale è un campo magnetico che li tiene attaccati. Fare entrare questa cosa nella vita di un bambino è uno degli errori più gravi che si possano fare».

La categoria della possibilità e quella della probabilità

Sempre più studi dimostrano che più alta è l’esposizione di un bambino ai dispositivi elettronici minore è il rendimento scolastico, dice Wolf nel suo intervento. Non solo, da studi neurologici approfonditi si nota anche che lo sviluppo cerebrale delle aree dell’attenzione è minore in chi passa molto tempo davanti a tablet e smartphone. Un esempio? I bambini apprendono il linguaggio molto più facilmente quando un genitore legge loro una storia da un libro che non ascoltandola da un tablet interagendo in modo attivo (è di poco tempo fa l’allarme della Associazione Nazionale Dipendenze tecnologiche: sempre più genitori intrattengono i figli con device elettronici, sottovalutando le conseguenze di questa “delega”)

Non abbiamo a che fare solo con il dispositivo, però, ma anche con l’algoritmo che modera e seleziona i contenuti che vediamo, «progettato per suggerirci solo cose che ci piacciono», ha sottolineato Mercorio prima di lanciarsi in una spiegazione agile ed efficace di come funziona l’intelligenza artificiale generativa (altro tema su cui Tempi ha scritto molto): se chiedi a ChatGPT di dire nello stile di Dante che oggi è una bella giornata il programma scriverà una terzina perfetta sul sole che splende in cielo: ma qui casca l’asino tecnologico, dice il professore della Bicocca: «Per l’Ai la “bella giornata” è il cliché meteo, per noi una giornata può essere bella per un incontro fatto, ad esempio: noi siamo essere possibilistici, viviamo la categoria della possibilità, l’intelligenza artificiale sta nella categoria della probabilità».

Il paese dei balocchi promesso dallo smartphone

Il digitale ha però ormai impattato ogni aspetto della nostra vita: «Non possiamo ignorarlo», ha detto Botturi, è un pezzo del nostro mondo, non si torna indietro. Ma il mondo digitale è molto più grande di smartphone e app». Serve educare le competenze digitali, non esistono “nativi digitali”, «nessuno nasce pre-programmato per la sua era tecnologica, bisogna capirle, interpretarle, inserirle nella categoria del possibile, non si acquisiscono con lo smartphone in mano: non si diventa competenti digitali stando su TikTok. La sfida è abitare luoghi in cui la tecnologia serve davvero».

Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, ha chiesto di “bandire” gli smartphone dalle scuole e di limitare l’utilizzo del digitale soprattutto alle elementari. Una decisione condivisa da Pellai: «Dai 9 ai 14 anni il cervello è molto fragile nei confronti dell’ingaggio proposto dalla vita online». Lo psicologo americano Jonathan Haidt dice che non bisogna dare gli smartphone ai ragazzi prima dei 14 anni e non farli iscrivere ai social prima dei 16, la città di New York li ha “banditi” dichiarandoli tossici per i minori.

Pellai fa un’analogia efficace: «Pinocchio si fida di Geppetto e va a scuola, ma quando Lucignolo lo intercetta per portarlo al paese dei balocchi non ha le competenze per dire “no, devo andare a scuola”, e cambia idea. Un dodicenne che vuole fare i compiti di matematica e ha lo smartphone per usare la calcolatrice riceve notifiche da altre app molto più attraenti. È difficile che dica “non le guardo, devo fare i compiti”: nel cervello di un dodicenne c’è uno tsunami, il cervello cognitivo non sta dietro a quello emotivo. Il lavoro dell’adulto è canalizzare il cervello emotivo verso obiettivi diversi dal paese dei balocchi promesso dalle app».

social network tablet bambino
Foto di Kelly Sikkema su Unsplash

La tecnologia come strumento e non come ambiente

Come per il confetto di una famosa pubblicità di tanti anni fa, basta la parola: un recente studio ha fatto fare lo stesso test a tre gruppi di ragazzi: il primo era in un’aula senza smartphone, il secondo aveva gli smartphone sul banco, ma spenti, il terzo aveva gli smartphone accesi che ricevevano notifiche: i risultati migliori li ha avuti il primo gruppo, i peggiori il terzo. Ma il secondo non è andato bene, «ecco perché sono d’accordo con la scelta di alcune scuole di non farlo tenere nemmeno nello zaino»: basta sapere che è lì e il cervello del ragazzo già si distrae. Non si scappa, dice Pellai: «La ricerca ci dice che lo smartphone fa diventare i ragazzi meno attenti e meno allenati alla vita. Ecco perché serve un’inversione di rotta: dobbiamo capire cosa vuol dire usarli come strumenti e non come ambienti, o avremo perso la partita».

Per Botturi «nella scuola vanno preservati spazi in cui coltiviamo abilità che la tecnologia tende a coprire». Non “o uno o l’altro”, come ribadisce anche Wolf parlando dell’importanza della lettura profonda, «che si può fare anche su pc, ma va imparata prima, su carta». La scuola, dice Botturi, può proporre buoni esempi: togliere gli smartphone in classe è utile (ma serve che le famiglie, in dialogo con i professori, tengano il punto anche a casa), ma bisogna dare spazio all’educazione al digitale nei programmi scolastici, formare i docenti: «digitalizzare la scuola non vuol dire riempirla di dispositivi: possono essere utili ma non è quello il fine». Tecnologia come strumento e non come ambiente, non possiamo demandare a un surrogato social amicizia e verità, dice Mercorio citando Papa Francesco.

La responsabilità delle piattaforme social

La speranza è che i ragazzi possano «espandere le competenze digitali e conservare quelle dei processi acquisiti negli ultimi 2000 anni», conclude Wolf ricordando l’importanza di leggere ad alta voce storie ai bambini. «Siamo la prima generazione di adulti che si trova a crescere figli costantemente intercettati da un sistema con un grande potenziale che chiede loro “quanto mi puoi dare?”, come il gatto e la volpe a Pinocchio. Abbiamo fatto entrare i nostri figli in una stanza con un buffet pieno di hamburger e patatine, dire loro che devono mangiare le carote nel vassoio messo nell’angolo della stanza non può funzionare. Bisogna sgomberare il buffet dal cibo non nutriente, tutti devono sapere che ai minori va dato il meglio, anche le grandi piattaforme social», sentenzia Pellai.

Non ci sono ricette preconfezionate per uscirne facilmente: «Siamo sempre più consapevoli che dobbiamo decidere la forma del nostro rapporto con tecnologia», ha concluso Botturi, «un modo è mettere in relazione questi strumenti potentissimi con vere sfide, obiettivi per cui vale veramente la pena. Dare una forma diversa a questi strumenti».

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