"Siamo rimasti in Centrafrica per dare la carezza del Nazareno"
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Il Centrafrica non è un posto dimenticato da Dio. E non lo è perché in questo paese dove papa Francesco aprì la porta santa del Giubileo nel 2015, operano e danno la vita dei missionari consapevoli che Dio ha sempre bisogno degli uomini per farsi presente: “Se non ci siamo noi, Lui aspetta”. In questo paese martoriato da una guerra che si prolunga in continui scontri dal 2013 paiono materializzarsi tutte le contraddizioni e il fascino dell’Antichissimo Continente: grandi ricchezze, infime miserie umane, interessi internazionali, incapacità gestionali, santi e demoni. Qui, solo poco tempo fa, è riscoppiato l’orrore nella parrocchia cattolica di Fatima, dove l’1 maggio un gruppo di ribelli ha ucciso durante la messa 16 cristiani con kalashnikov e granate.
Qui abitano due religiosi carmelitani in missione da diversi anni: padre Federico Trinchero e padre Aurelio Gazzera che venerdì sera, in occasione di un incontro a Milano moderato dal giornalista di Tempi Leone Grotti, hanno raccontato la loro esperienza e risposto alle domande del pubblico.
NO, IL CAMPO DA CALCIO, NO. “Era un’esperienza un po’ straniante ma bella entrare la mattina nel refettorio e chiedere: ‘Chi è nato stanotte?'”. Padre Federico vive nel monastero Nostra Signora del Carmelo nei pressi della capitale Bangui. Dopo il colpo di Stato della coalizione islamista Seleka ha visto arrivare migliaia di profughi in fuga dal conflitto. “Abbiamo sentito degli spari – ha ricordato – e visto gente fuggire verso il convento. Già il primo giorno erano in 600 e li abbiamo ospitati nel prato e nel garage. Ma il giorno dopo erano 2.500 e nel giro di poco sono diventati 10.000. Vi confido che inizialmente sono stato preso del panico e sono fuggito in biblioteca: ‘Dove li mettiamo?’, mi chiedevo. Pensavamo che sarebbero rimasti solo qualche mese invece si sono fermati da noi tre anni. Credetemi, diecimila persone non sono facili da gestire: c’erano i malati da curare, i bagni da scavare, i bambini da accudire, l’esigenza di sfamarli e di dare loro delle regole da rispettare. La prima volta che abbiamo distribuito il cibo, ci abbiamo messo tre giorni. Pian piano le cose si sono ‘normalizzate’. Abbiamo diviso lo spazio antistante al convento in quartieri, abbiamo organizzato il refettorio come fosse una sala parto, abbiamo visto sconvolta la nostra vita dalla sera alla mattina. Col tempo però abbiamo imparato a vivere con loro, con queste diecimila persone cui abbiamo insegnato che anche noi carmelitani avevamo bisogno dei nostri spazi (l’unico, intangibile, era il campo di calcio!) e dei nostri tempi, di studio e di preghiera. Per cui la regola era questa: per morti e nascite chiamateci giorno e notte, per il resto aspettate”.
VORREI ESSERE COME VOI. La convivenza è stata difficile, ha detto padre Federico, ma anche affascinante: “Mai, nemmeno per un minuto ci siamo posti il problema se avremmo dovuto accoglierli o meno. Abbiamo pensato che era nostro compito stare con loro finché sarebbe stato necessario. Ora che i profughi non ci sono più nel monastero, ogni tanto ne sento la mancanza. Mi fa grande piacere quando sono in giro per il paese incontrare qualcuno che mi mostra un bambino e mi dice: ‘Padre, questo è un figlio tuo, è un figlio del monastero!’. Per fortuna la frase, grazie al colore della mia pelle, non si presta a fraintendimenti!”.
“Non siamo eroi” ha detto Trinchero. “Abbiamo fatto apostolato a chilometro zero, nel senso che la gente ce l’avevamo vicina di letto. Papa Francesco ha inviato tutti ad andare nelle periferie; nel nostro caso le periferie delle periferie ci sono entrate in casa. In un caso questo è accaduto proprio letteralmente: un ragazzo che ha dormito per tre settimane nel prato davanti al convento, si è presentato alla mia porta per dirmi: ‘Io vorrei essere come voi’ e poiché è sempre rimato fedele a questo suo desiderio ora sta concludendo il suo periodo di preparazione”.
ESISTONO COSE BELLE. Padre Gazzera abita a Bozoum ed è in Centrafrica dal 1992. Nel paese è un’autorità ed è conosciuto come l’”uomo che ha piegato i fucili ai banditi”. La sua è una storia di grande coraggio e grande fede (ve l’abbiamo raccontata qui) e lui l’ha messa anche per iscritto in un libro che raccoglie i suoi racconti e pensieri pubblicati sul blog. “Perché l’ho intitolato Coraggio. Bisogna dare battaglia perché Dio conceda vittoria? Perché io credo che l’Africa abbia bisogno di questo invito. E’ vero che ci sono le situazioni difficili, è vero che molte cose non vanno per il verso giusto, è vero che non esiste uno Stato e nemmeno una classe dirigente. Tutto questo è vero. Tuttavia è vero anche che esistono cose belle: esiste la vita e la bellezza della fede e dell’annuncio cristiano. Esiste il fatto che noi siamo lì per annunciare il dono della fede. Per questo, quando ci sono stati i primi scontri, tutti sono scappati, ma noi no, noi siamo rimasti. Spesso ci chiedono: ‘perché non siete andati via come tutti gli altri? Come le Ong, come la polizia, i militari che già il giorno prima, alle prime avvisaglie di combattimenti, se l’erano data a gambe levate?’. Noi siamo rimasti perché solo il fatto di rimanere ha dato una speranza alla nostra gente, a quelli cui siamo andati ad annunciare Cristo. La nostra presenza è il segno di un’altra presenza. Perché noi sappiamo che Lui è sempre al nostro fianco. Quando tu dai una carezza a qualcuno, tu stai dando la carezza del Nazareno”.
EDUCARE SEMPRE. Padre Trinchero e padre Gazzera sono convinti che il Centrafrica potrà ripartire solo se punterà sull’educazione. “Non dobbiamo fare altro che ripetere quello che fecero i missionari quando arrivarono qui per la prima volta nel 1897: riscattarono i bambini schiavi e costruirono delle scuole. Solo così si può ripartire. E pian piano i frutti si vedono: adesso abbiamo messo in piedi una fiera agricola, è nata una cassa di risparmio e poi di credito. Così facendo la Chiesa ha tenuto in piedi un paese dove lo Stato non esiste e dove, spesso, le Ong si muovono con tempi biblici, poco efficaci”.
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