Selfie, svapare, svirgolata, redditest, scouting, videoreporter. Probabilmente per molte persone queste parole hanno un significato oscuro, ma sono state decretate le nuove parole del 2015. Questi lemmi sono stati inseriti nella versione del vocabolario Zingarelli 2015, parole nuove che si vanno ad aggiungere alle 144 mila voci già esistenti, per un totale di 380 mila significati. Come nascano le parole nuove, e perché sia importante inserirle in un dizionario, l’abbiamo chiesto a Michele Colombo, professore di Storia della Lingua italiana all’Università Cattolica di Milano.
Professore, non le fa storcere il naso che “selfie” (termine coniato in rete, che descrive l’autoscatto fatto con lo smartphone) sia stato inserito in un dizionario?
Perché mai? Lo Zingarelli è appunto un dizionario molto attento alle novità, che fa dell’aggiornamento costante uno dei suoi punti di forza. D’altra parte il compito del lessicografo (cioè di chio scrive vocabolari) è appunto descrivere la lingua così com’è.
Come viene scelto un termine nuovo da inserire in un dizionario?
Il criterio è variabile. Teoricamente il lessicografo dovrebbe cercare di fare distinzione tra un termine divenuto di uso consueto e un occasionalismo, in voga solo per un determinato periodo. Ma è tutt’altro che semplice: solo il tempo è giudice insindacabile.
Sempre usando “selfie” come termine di riferimento, va notato che non è nemmeno una parola di lingua italiana. Non piace a tutti questo continuo rimando all’inglese.
Si tratta di prestiti linguistici, che possono essere adattati all’italiano o non adattati, come appunto “selfie”. Per capirci meglio, “selfie” è un prestito non adattato, “bistecca” invece, che arriva dall’inglese “beef-steak” nell’Ottocento, è adattato, perché rispetta la struttura della lingua italiana, dove i nomi, tranne qualche eccezione, finiscono in vocale e hanno un plurale diverso dal singolare. Di solito il timore della gente riguarda il primo tipo di prestiti: ma la loro incidenza è assai ridotta.
Quanti sono gli anglicismi che usiamo?
I linguisti stimano che i prestiti dall’inglese siano meno del 2 per cento del patrimonio lessicale dell’italiano: una quota molto bassa. Se poi ci si riferisce al cosiddetto vocabolario di base, cioè i termini più utilizzati (circa 6500 parole), la percentuale di anglicismi si abbassa ulteriormente, allo 0,5 per cento. Non è quindi il caso di preoccuparsi, la lingua italiana non sparirà.
Come cambia una lingua?
La lingua evolve grazie a diverse spinte, tra cui una è proprio il contatto con altri idiomi. Nel caso della lingua italiana, oggi l’attenzione si concentra soprattutto sugli anglicismi, ma fino agli anni Cinquanta era il francese la lingua privilegiata dalla quale attingere. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la supremazia economica e politica degli Stati Uniti d’America ha fatto sì che l’inglese divenisse il serbatoio principale di prestiti alla lingua italiana. Ma succede anche il contrario: spesso è o è stata la lingua italiana a prestare termini alle altre lingue. Pensiamo sopratutto ai termini della moda o della gastronomia. Oppure al ruolo della lingua italiana in ambito musicale, con termini come “adagio”, “lento” o “vivace” che non venivano tradotti dai musicisti di altre nazionalità. Andando ancora più indietro nel tempo, pensiamo al termine “banca”, che viene dal banco su cui i mercanti fiorentini svolgevano nell’Europa medioevale le loro operazioni finanziarie e commerciali. Da qui “bank” in inglese e in tedesco, “banque” in francese, e così via.
Talvolta si pensa all’italiano come una lingua morta, perché in tutto il mondo si parla inglese.
Niente di più sbagliato. Anzi, semmai l’italiano ora è alla sua massima vivacità, visto che è la lingua principale parlata nel territorio nazionale. Fino a pochi decenni fa, a farla da padrone erano i dialetti, che comunque rimangono vitali, soprattutto in alcune regioni italiane. C’è poi un paradosso, perché la lingua è molto viva ma allo stesso tempo rischia un impoverimento lessicale, soprattutto nelle nuove generazioni. Sarebbe l’ideale che i professori che alle superiori insegnano letteratura italiana non si limitassero alla letteratura, ma insegnassero agli studenti a leggere il giornale. Un diplomato dovrebbe essere in grado di comprendere perfettamente il “fondo” di un quotidiano, e invece a volte si scopre che parole astratte come “biasimare” o “desumere” riescono sconosciute a molti. L’impegno su questo fronte è un lavoro di civiltà.