Se l’Egitto resta solo (guai in vista per tutto il Medio Oriente)

Di Leone Grotti
06 Dicembre 2016
Il paese si è salvato dalla sharia e dal default economico grazie ai soldi dei sauditi. Ma adesso il Cairo e Riyadh sono in disaccordo su tutto. Islam compreso

A girl makes her way to school in Giza, Egypt, Thursday, Nov. 17, 2016. Egypt is currently suffering an acute foreign currency shortage because of the decimation of its lucrative tourism industry, double digit rates of inflation and unemployment. (AP Photo/Nariman El-Mofty)

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Se negli ultimi tre anni la nazione più popolosa del mondo arabo, l’Egitto, non è andata incontro al tracollo economico e all’ennesima crisi politica post-Primavera araba è solo merito dell’Arabia Saudita. Dal 2013, infatti, gli sceicchi hanno versato nelle malandate casse del Cairo più di 30 miliardi di dollari, permettendo così al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi di mandare avanti il paese. Ecco perché quando il mese scorso l’Egitto ha votato alle Nazioni Unite una risoluzione sulla Siria contraria agli interessi sauditi, dalle parti di Riyadh non l’hanno presa bene. Il Regno credeva di essersi conquistato la fedeltà incondizionata dell’Egitto una volta per tutte e la doccia fredda, oltre a incrinare uno dei rapporti di alleanza più importanti del Medio Oriente, potrebbe spingere alla formazione di assi inediti nella regione.

Quando nel luglio del 2013 l’allora capo dell’esercito al-Sisi depose con un colpo di Stato il presidente Mohamed Morsi, affiliato ai Fratelli Musulmani e accusato di voler instaurare un regime islamico, l’Egitto non era solo politicamente diviso ma anche economicamente in crisi. Il golpe aveva spaventato gli investitori stranieri, gli Stati Uniti di Obama erano indecisi se sostenere o meno il nuovo governo, disoccupazione e inflazione galoppavano. Allora sono stati i sauditi a garantire il futuro con un versamento di 5 miliardi di dollari, ma ancora più importanti sono state le parole del ministro degli Esteri Al-Faisal: «L’Arabia Saudita provvederà a compensare ogni taglio degli aiuti all’Egitto da parte delle nazioni occidentali». Il Cairo non è stata avaro di ringraziamenti: al re saudita Abdullah, morto nel 2015, è stata intitolata la piazza principale di Luxor, la capitale turistica dell’Egitto. La faccia del monarca è stata stampata su enormi cartelloni, come si usava fare anni addietro con il dittatore Hosni Mubarak.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]I sauditi hanno le loro ragioni per sostenere il “Leone d’Egitto” Al-Sisi. Innanzitutto tenere a bada un nemico comune: i Fratelli Musulmani. L’ex generale li ha messi fuori legge dichiarandoli un’organizzazione terroristica, incarcerando e condannando a morte centinaia di affiliati. Gli sceicchi hanno sostenuto la Fratellanza per sessant’anni, quando veniva vessata e osteggiata dai dittatori laici egiziani, ma hanno cominciato a temerla una volta salita al potere. Il populismo islamista tutto equità e giustizia che propugnava la Fratellanza, con il sogno di estendere il suo dominio su tutto il mondo musulmano partendo dalla terra dei faraoni, mal si conciliava col ristretto dominio della casata degli al-Saud. L’Egitto, paese a stragrande maggioranza sunnita, è poi per Riyadh un alleato regionale fondamentale nella lotta contro il nemico sciita per eccellenza: l’Iran del grande ayatollah Ali Khamenei.

Se l’Arabia Saudita ha bisogno dell’Egitto, è vero anche l’opposto. A quattro anni dalla Primavera araba ancora l’economia non decolla: la disoccupazione è al 12,5 per cento (molto più alta se si considera solo quella giovanile), quasi un egiziano su tre vive sotto la soglia della povertà, l’ultimo esercizio dello Stato ha fatto registrare un deficit del 12,2 per cento, l’inflazione è salita al 14,6 per cento, il declino del turismo a causa degli attentati terroristici e quello dei proventi del Canale di Suez hanno anche portato a una crisi delle riserve di valuta estera. Inoltre i problemi cronici dell’economia del paese, come l’ingente quantità di denaro utilizzata per garantire sussidi alla popolazione, dal pane alla benzina, non sono ancora stati risolti.

Dalla Siria allo Yemen
Nonostante ci siano tutte le premesse perché Egitto e Arabia Saudita collaborino, negli ultimi mesi il rapporto si è incrinato. Dopo che a settembre re Salman ha autorizzato il versamento di 2 miliardi all’Egitto per favorire l’ottenimento di un prestito dal Fondo monetario internazionale di 12 miliardi, a ottobre il Cairo ha votato all’Onu contro l’Arabia Saudita, sostenendo una risoluzione dell’arcinemica Russia. Subito dopo l’ambasciatore saudita al Cairo è tornato a Riyadh per una visita di tre giorni non prevista e la compagnia petrolifera di Stato, Aramco, ha bloccato l’arrivo in Egitto di centinaia di migliaia di tonnellate di petrolio a prezzo scontato. Tuttora non si sa se la fornitura promessa ad aprile (700 mila tonnellate al mese per cinque anni) verrà ripristinata.

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La Siria è uno dei nuovi punti di divisione tra i due paesi. Se l’Arabia Saudita sostiene i “ribelli” e terroristi sunniti che combattono contro il presidente alawita Bashar al-Assad, l’Egitto teme che il paese venga conquistato da gruppi che condividono la stessa ideologia dei Fratelli Musulmani, per di più sostenuti da paesi non amici come Qatar e Turchia. Per questo, al-Sisi preferisce schierarsi dalla parte di Russia e Assad. Inoltre, l’Egitto si è sempre rifiutato di inviare il proprio esercito sul campo nello Yemen a sostegno della guerra scatenata dall’Arabia Saudita contro i ribelli sciiti Houthi.

C’è un episodio che fa capire come i rapporti stiano cambiando. A fine ottobre, il capo dell’importante Organizzazione della cooperazione islamica, il saudita Iyad Madani, si è fatto pubblicamente beffe di al-Sisi. Mentre si trovava con il presidente della Tunisia, Essebsi, ha per sbaglio fuso il suo nome con quello del presidente egiziano, chiamandolo “Béji Caid al-Sisi”. Per trarsi d’impaccio, ha fatto una battuta: «Sono sicuro che lei nel suo frigo ha qualcosa di meglio dell’acqua». Il riferimento è a una recente dichiarazione del presidente egiziano, presa di mira sui social media, che volendo spronare i giovani a tenere duro nel mezzo delle difficoltà economiche, ha affermato che per dieci anni nell’esercito ha condotto una vita di stenti, potendo appunto permettersi di avere in frigorifero nient’altro che acqua. Il sarcasmo di Madani sottintendeva un pensiero preciso: l’esercito in Egitto, lungi dal fare la fame, è sempre stato il più importante centro di potere del paese e al-Sisi è riuscito addirittura a diventarne il capo. Dopo la veemente protesta del ministro degli Esteri egiziano, che ha definito la battuta «deplorevole», Madani si è dimesso citando non meglio precisati motivi di salute.

Amicizia o sottomissione?
L’opinione pubblica egiziana, fortemente nazionalista, sembra essere stufa di veder trattare il proprio paese come una colonia saudita. Emblematico il caso delle due isole Tiran e Sanafir del Mar Rosso, che ad aprile al-Sisi ha “regalato” a Riyadh. Il popolo ha protestato tanto che il tribunale amministrativo del Cairo ha bloccato il trattato firmato dal presidente. Accusato di piegarsi ai sauditi, al-Sisi ha detto che «l’Egitto non si inginocchia davanti a nessuno a parte Dio». Anche l’opinione pubblica saudita, però, comincia a essere stufa di vedere che il Cairo, nonostante l’enorme quantità di soldi ricevuti, non ricambia con un sostegno adeguato in politica internazionale. Soprattutto in un momento in cui, a causa della corsa al ribasso del prezzo del petrolio, per la prima volta anche gli sceicchi conoscono la crisi e tagliano stipendi e benefit per i dipendenti statali. A queste condizioni, vale ancora la pena tenere in piedi l’Egitto?

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Infine, esiste una diatriba tutta interna all’islam: la massima autorità del sunnismo, il grande imam dell’università egiziana di al-Azhar, ha cominciato dopo l’elezione di al-Sisi a parlare di una «necessaria» riforma religiosa. E ad agosto ha spinto per escludere dal sunnismo il wahabismo, la dottrina che sta alla base dell’islam praticato in Arabia Saudita, considerandolo una «deformazione» che porta al terrorismo.

L’impressione è che i due paesi sunniti più influenti nel mondo, avendo bisogno l’uno dell’altro, non possano fare altro che trovare un accordo, ma i problemi non mancano. E il Cairo ha già cominciato a guardarsi attorno. Prima ha firmato un accordo per forniture di petrolio con l’Iraq, paese attualmente guidato da un governo sciita; poi si sono diffuse voci su una visita segreta in Iran del ministro per il Petrolio Tarek El Molla. Le voci sono state smentite ma sembra che l’unica alternativa ai sauditi sia virare verso i vecchi nemici: Iran e Russia. In attesa di sapere quale sarà la politica degli Stati Uniti con Donald Trump al potere.

@LeoneGrotti

Foto: Ansa e Ansa/Ap

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