
Scuola “per” tutti o scuola “di” tutti?

Il sistema scolastico italiano è profondamente inefficiente – l’Ocse dixit – tale da generare un enorme spreco di ricorse economiche ed umane senza una corrispondente resa formativa. La sua struttura organizzativa e gestionale – caratterizzata da un centralismo burocratico in grado di vanificare e frustrare energie e volontà – non può garantire e migliorare la flessibilità delle strutture educative e di istruzione, e contemporaneamente denota sempre più una incapacità a rispondere prontamente alle esigenze che emergono dalla collettività.
A vent’anni dall’approvazione della “sua” legge sulla parità scolastica (Legge 62/2000), l’onorevole Berlinguer, nell’intervista rilasciata a Tempi, fa il bilancio su quella che, a parer suo, «è la battaglia per il futuro del paese». Legittime le sue argomentazioni, che vanno rispettate, così come rispettate vanno, tuttavia, quelle che hanno argomentazioni di diversa natura, e ciò proprio in prospettiva di un futuro migliore.
Nessuno disconosce il necessario impegno di “qualificare la scuola pubblica”, ma non va confuso, come quanto avviene, il “pubblico” con lo “statale”. Tutte le scuole, da chiunque gestite, sono per natura “pubbliche”, non per concessione dello Stato, bensì per il servizio alla comunità, e quindi a servizio di quanti liberamente le scelgono, e ciò sia nella struttura (comunità di genitori, insegnanti e studenti), sia nella finalità (l’educazione dei giovani alla vita sociale). Scuola pubblica è dunque un pleonasmo, anche se coloro che la gestiscono possono essere lo Stato, i Comuni, Enti o privati. Il vero problema non è il gestore, ma ciò che la scuola rappresenta per la comunità.
Certamente ci possono essere scuole che ghettizzano, tuttavia se ci sono vanno individuate e impedito loro di insegnare, senza distinzione tra statali e non statali. Ciò che va affrontato, per avere un servizio scolastico veramente efficiente e di qualità, è il principio della “libertà di insegnamento”: cioè “libertà” e non “parità”, e ciò perché la libertà rappresenta un diritto di tutte e di ciascuna scuola, sia statale o non statale. «L’enfasi in ordine al termine “parità” costituisce un pericolo mortale per le scuole libere. In genere la parola “parità”, come ogni egalitarismo, è l’anticamera del totalitarismo. Così sembra interderla chiunque pensa ad un “servizio nazionale integrato”, nel quale si mescolano la vecchia pretesa di una educazione nazionale, e quella gramsciana di una scuola egemonica nazionale» (Gianfranco Morra – “La confusione in cattedra”, Il Giornale 11/7/1998).
Nell’intervista rilasciata il 22 agosto 1996 su l’Espresso, l’onorevole Berlinguer ebbe a chiarire che «nel caso della scuola, quando parlo di parità, parlo di un insieme di obblighi e diritti, soprattutto di obblighi. Ci sono standard da osservare. Docenti, attrezzature, igiene, serietà dei corsi, regole che vanno osservate sia sul pubblico che nel privato». E in una seconda intervista rilasciata il 15 marzo 1997, su Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, così rispose alla domanda dell’intervistatore: «Inserita in un sistema pubblico di istruzione, la scuola non statale ne viene fortemente condizionata. Non c’è dubbio. E da cosa viene condizionata? Dalla disciplina delle regole». L’operazione della “parità” – sviluppata nella legge suddetta – si concluse, di fatto, realizzando l’inserimento della scuola non statale entro il progetto statale uniforme e imperativo, causando a dette scuole una perdita d’identità, il tutto in cambio di un pugno di lenticchie.
Con la legge “cosiddetta” paritaria, che attiva i sopraddetti concetti, a distanza di vent’anni nulla è sostanzialmente cambiato: le scuole non statali paritarie sono statalizzate, cioè soggette ad uno statalismo che, di fatto, nega la piena libertà loro costituzionalmente assicurata (art. 33, c. 4°).
È necessario riqualificare la scuola, sia in ordine alla qualità, sia riguardo la necessaria libertà: solo qualità educativa e formativa e libertà gestionale, culturale, pedagogica, programmatica – in parole semplici “autonomia” operativa e di giudizio – sono in grado di consentire l’“espansione scolastica”. E ciò non è “una battaglia di sinistra”, bensì una battaglia della “società civile”, di quanti hanno veramente a cuore lo sviluppo culturale e sociale in una scuola “di ciascuno” e “di tutti”. Il pensare ad una scuola “per tutti” è solo egemonico!
Da qui la rivendicazione del diritto alla libertà della scuola tutta – statale e non statale – in un quadro di autentico pluralismo. È dalla libertà della cultura e della scuola, della loro possibilità di organizzarsi e di pensarsi come meglio ritengono le forze della società civile, che dipendono il valore e l’autorevolezza. «Solo se l’ordine degli studi verrà svincolato dal monopolio pubblico del sapere e dell’educazione si potrà avere il sistema della “scuola libera”» (Salvatore Valitutti, in La libertà della scuola, a cura di Giancristiano Desideri, Ed. Liberilibri, 2009).
Ma tutto ciò – come la storia insegna – resterà inascoltato finché non sarà rimosso il problema dello statalismo e della burocrazia, e consentita una autentica autonomia di indirizzo, progettuale e organizzativo.
Vi è, giustamente, il problema della scolarizzazione, o meglio dell’abbandono scolastico, tuttavia sembra che non siano la preoccupazione prima dello Stato italiano: chiediamoci, come mai? Ma in tutti questi anni, cosa ha fatto lo Stato? Non è forse compito suo? Non si dica che è colpa delle scuole non statali. Credo, per correttezza, che si debba analizzare il fatto che anche questo problema potrebbe essere affrontato da una riforma che contempli la libertà. Occorre cambiare registro. Non si può pensare una scuola burocratica che pone solo obblighi e nega i diritti sacrosanti delle persone. Siamo sicuri che la scuola possa “attrarre”, obbligata come è a rispettare ordinamenti che ad ogni cambio di maggioranza vengono rimescolati e rivoluzionati? Ordinamenti ballerini che condizionano la “libertà di insegnamento”; confondono i docenti professionalmente mortificati, considerati sudditi, con ciò accentuando i motivi di una certa loro disaffezione alla scuola, e contemporaneamente quella degli studenti?
Per quanto riguarda gli investimenti per la scuola, il sostegno nei confronti degli alunni – disabili compresi – delle scuole non statali, e l’equipollenza economica di trattamento nei riguardi degli studenti tutti, che fine hanno fatto? Non sembra corretto affermare che “il problema non è all’ordine del giorno”: si dica che non lo si vuole considerare. Così come dire che pur inserita nel sistema, secondo la Costituzione, la scuola non statale, cosiddetta paritaria, “non può pretendere di essere sostenuta economicamente, non può prendere posizioni a dir poco avventurose”. Ciò significa, da un lato minare la libertà di insegnamento delle scuole non statali, e contemporaneamente negare il principio di sussidiarietà, cioè quel principio che pone il dovere dello Stato di essere sussidiario verso tutte le agenzie educative e verso i corpi intermedi. Ma tant’è: tale principio è stato negato a priori. Doveri e diritti debbono essere coniugati insieme. E risulta chiaro che i “paradossi” insiti nell’art. 33 della Costituzione andranno corretti.
«La libertà è innanzi tutto il diritto alla diseguaglianza» (Nikolay Berdigev, filosofo russo). «Una educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito al potere dominante, quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore ne è il dispotismo» (J.S. Mill, Saggio sulla libertà, Ed. Il Saggiatore, Mi 1981). Lo Stato deve limitarsi a svolgere una funzione di controllo e di garanzia, e non fondare esso stesso l’unico ordinamento scolastico valido. Purtroppo «lo Stato non solo istituisce le scuole: lo Stato è la scuola. Il monopolio scolastico dello Stato è sostanziato da una presunzione, che solo lo Stato sia capace di creare una scuola degna del nome, mentre non é riuscito che a burocratizzarla e fossilizzarla». (Luigi Sturzo, in Difesa della scuola libera, Ed. Città Nuova).
Oggi la vita politica e democratica ha una nuova e diversa esigenza: non più il controllo monopolistico della cultura, ma la sua libera iniziativa come presupposto per la rigenerazione delle istituzioni.
Foto Ansa
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