Schettino è il capro espiatorio. Così ci indigniamo senza immedesimarci
«La tragedia della Concordia mette in evidenza una delle tendenze dominanti di oggi: cogliere l’aspetto più evidente e facile da comprendere di una situazione per ampliarlo, ingrandirlo, fino a trasformarlo nella sola causa di tutto il male che ne consegue. Quella di semplificare e sintetizzare tutte le cause di una tragedia in un punto solo è una tendenza dominante di oggi». Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano, definisce così a tempi.it la predisposizione dei giornali e di una parte della società ad affrontare i problemi in termini di capro espiatorio. «Appena una persona considerata grande e importante, come un capitano di nave, diventa debole e cade, la gente lo prende di mira, dando sfogo così alle proprie inconsce frustrazioni. I giornali fomentano questo atteggiamento perché così possono semplificare i problemi, senza fare la fatica di approfondire niente. Il problema, però, è che nell’aggressione senza pietà dimentichiamo la morte, il dolore e ogni domanda sul mistero che esse rappresentano».
Il capitano Francesco Schettino è responsabile del naufragio della nave Concordia davanti alla costa dell’Isola del Giglio e della morte di molte persone.
Di fronte a questa sciagura terribile occorrerebbe una certa distanza psicologica per immedesimarci con tutti i soggetti che sono in gioco. Ma per farlo con il capitano, ad esempio, bisognerebbe avere un’attitudine a cogliere le ragioni profonde di ciò che è successo e anche il coraggio di collocare la sventura in un contesto generale. Ma questo oggi è considerato un tradimento, come uno schiaffo a chi è morto.
Perché parla di coraggio?
Basta vedere che cosa è accaduto al gip Valeria Montesarchio, che fa le indagini preliminari: ha detto che non è necessaria la custodia cautelare e l’hanno quasi lapidata. Ci vuole coraggio, è difficile sfuggire all’istinto di scaricare su una persona tutte le colpe e le violenze possibili, senza nemmeno lasciare spazio alla riflessione.
Lei come condurrebbe questa riflessione?
Se dovessi immedesimarmi nel capitano, direi che ha commesso un errore fatale, che però chiunque di noi avrebbe potuto compiere. Ma mi chiederei anche perché l’equipaggio non si è allarmato vedendo che erano così vicini alla costa, perché nessuno ha chiesto di cambiare rotta, perché la capitaneria di porto non l’ha avvisato, perché nessuno ha mai protestato contro i cosiddetti “inchini”. Non si può ridurre tutto al capitano Schettino.
Però dopo il naufragio ha abbandonato la nave.
Ammesso, come sembra, che l’abbia fatto, io mi chiederei perché non è risalito.
I giornali hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro analizzando questo problema.
Sì, ma in un’atmosfera surreale che non aiuta il ragionamento. Ad esempio, definire “eroe” Gregorio De Falco, che ha solamente invitato il capitano a tornare sulla nave, è uno sproposito e conferma l’atmosfera di demonizzazione generale. Io ho ascoltato solo in parte il dialogo tra il capitano e De Falco: le risposte di Schettino sembrano implicare una condizione psicopatologica di smarrimento e confusione totale. Nessuno l’ha sottolineato sui giornali. La paralisi emotiva che il suo comportamento denota non può essere bollata come codardia, viltà o addirittura disumanità. Che cosa gli costava risalire sulla nave? Niente, non sarebbe stato in pericolo di morte e anzi avrebbe salvato la sua dignità. Gli conveniva farlo, era nel suo interesse. Perché allora non è risalito? Perché era sconvolto, addirittura ha detto «perché è buio»: è evidente che non sapeva più quello che diceva.
Il paese di provenienza di Schettino ha chiesto di fermare la «gogna mediatica». I familiari sono addirittura arrivati al punto di domandare ai giornali di non calpestare la sua «dignità umana».
E hanno ragione. I giornali semplificano quando sostengono che la colpa è solo del capitano, che Schettino è “cattivo”, quando gridano alla gogna, quando indicono la caccia del capro espiatorio: propongono una conclusione che tutti sono in grado di intendere e accogliere senza creare divisioni tra chi legge i giornali.
Perché lo fanno?
Per non fare fatica. Analizzare tutti i fattori è difficile, immedesimarsi dentro una coscienza e una soggettività come quella del capitano richiede tempo. Non solo, implica l’analisi del comportamento suo ma anche di tutti gli altri soggetti implicati nel naufragio. E poi, ripeto, ci vuole coraggio: chi cerca di riflettere e guardare le cose in modo critico viene accusato di complicità o di essere un traditore delle vittime. Basta vedere come hanno trattato il Gip, appena ha provato a ricollocare le cose in una cornice umana.
Perché secondo lei tutta la stampa ha reagito in modo unanime al naufragio della Concordia?
Perché non ha alcuna intenzione di affrontare seriamente il problema, di analizzare tutte le sue implicazioni.
In che senso?
Nel naufragio è morta molta gente. I giornali non presentano una partecipazione profonda al dolore per le vittime, non si legge nessuna riflessione profonda davanti al mistero della morte di chi cercava la gioia su una nave e ha trovato invece la fine della vita. Non c’è spazio sui giornali per il silenzio o la preghiera. Si percepisce solo la volontà da parte di alcuni di dimostrare partecipazione, ma si capisce che è falsa.
La partecipazione c’è, ma nei confronti ad esempio degli inventori della maglietta “Salga a bordo, cazzo”.
Purtroppo in tutti noi c’è la volontà di fare del male ai deboli. Chi governa una nave è considerato grande, importante, come anche i politici. Ma quando cadono, appena diventano deboli, ecco che molti li prendono di mira assalendoli, dando sfogo così alle proprie inconsce frustrazioni. Quella maglietta è un evidente segno di violenza, è vergognosa, io almeno la vedo così. Purtroppo la violenza vive dentro ogni uomo e appena questi comportamenti trovano una giustificazione legale, come l’offesa e la distruzione di un capitano che ha commesso un errore, ecco che tutti si sfogano.
I giornali sembrano riccorere sempre più spesso al capro espiatorio nell’affrontare i problemi.
Una parte della colpa ce l’ha l’esposizione mediatica, televisiva, stile Youtube e quant’altro, dei fatti. Tutto è esasperato e dilatato, reso patologico. La spettacolarizzazione dei fatti fa emergere in ognuno di noi le dimensioni meno nobili. Pur di apparire, di essere apprezzati e considerati bravi, diventiamo meno inclini alla speranza, al perdono, alla comprensione e alla preghiera. L’aspirazione della prima pagina ci rende crudeli.
Qual è la conseguenza di tutto ciò?
Quello che abbiamo visto e letto in questi giorni. La vita straziata dalla morte non è considerata nella dimensione spirituale corretta del dolore infinito per una vita spezzata. Anzi, il dolore stesso viene trasformato e cancellato da questa violenza distruttiva che convogliamo tutta su una persona che ha sbagliato. Così che nell’aggressione dimentichiamo la morte, il dolore e ogni domanda sul mistero che rappresentano. Ma queste domande sono la cosa più importante. Infierendo su una persona, perdiamo tutta la carica emozionale e ci ritroviamo così incapaci di riflettere sulla vera tragedia: la morte delle persone e il mistero del dolore.
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