C’è un santo che il lombardo di noi due sente un po’ come un fratello maggiore. E’ san Rocco. Poco più che ventenne gli capitò infatti di incontrarlo su uno dei quadri più belli e commoventi della storia dell’arte. E gli capitò di scriverne un libriccino. Il quadro è lo Stendardo di Orzinuovi di Vincenzo Foppa (è conservato alla pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, ed è una di quelle cose che chi è lombardo dovrebbe vedere almeno una volta nella vita). Come dice il titolo era uno Stendardo processionale per scongiurare il pericolo della peste, quindi dipinto a tempera sui due lati: da una parte con la Madonna e il Bambino. Dall’altra con san Sebastiano e san Rocco. Ebbene, il volto di quel Rocco, con la carnagione magra come la terra, con i lineamenti tagliati con l’accetta, dallo sguardo tenero e stupito come quello di un galeotto con l’anima da bambino; quel volto è una delle immagini indimenticabili della storia della pittura. Purtroppo la tela dipinta da quel Raffaello contadino che fu Vincenzo Foppa, è troppo preziosa e delicata per essere spostata e venire a far compagnia alle tante che sono state raccolte a Piacenza (Palazzo Gotico, sino al 25 giugno; catalogo Electa) per la bellissima mostra dedicata alle immagini di San Rocco.
Ma chi era questo santo così frequente nelle nostre chiese e così dimenticato oggi. Era il protettore dalla peste, e questo ne spiega l’enorme popolarità nei secoli passati. Veniva da Montpellier, nella Francia meridionale, dov’era nato pare nel 1300. Si sa che più o meno diciottenne si volle recare a Roma in pellegrinaggio, ma non riuscì ad andare oltre Acquapendente, perché la pietà per i malati di peste lo indusse a un gesto di eroica solidarietà: fermarsi e curarli, indifferente al rischio di restare lui stesso vittima del contagio. Ma San Rocco è rappresentato con una piaga nella coscia, perché le sue biografie raccontano che lui stesso alla fine restò colpito dal morbo. E insieme a lui è sempre rappresentato il cane che gli fece compagnia e gli procurò miracolosamente il cibo nel periodo della malattia, contratta appunto a Piacenza. Poi Rocco guarì, ma per ragioni che sono ignote, si trovò a vivere altre disavventure, causate questa volta dagli uomini. Morì infatti prigioniero, dopo cinque anni di dura reclusione, nel carcere di Angera. Cosa aveva fatto? Perché tanto astio nei confronti di un uomo la cui grandezza di cuore era nota a tutti? Le biografie non danno spiegazioni. Ma ciò che la storia non svela, lo svela il culto e la memoria che si è conservata di Rocco: un santo troppo marcato socialmente, troppo appartenente a una classe sola, la più bassa. Se guardate i quadri esposti a Piacenza, scoprirete che quelli che lo sanno capire sono solo i pittori della realtà (e Foppa, tra loro, è appunto il primo e il più grande). E’ un santo la cui fisicità è così dirompente, da renderlo più vero che non mille documenti e testimonianze storiche.
Ha addosso, e ti ributta addosso, un’irriducibile concretezza. Come direbbe Pier Paolo Pasolini è “un infrequentabile”. Perché rozzo, perché incapace di spiccare il volo, perché poco spirituale. Perché ostenta sempre le proprie piaghe o vergogne. Ma benedetti siano, insieme a Rocco, tutti “gli infrequentabili” del mondo.