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Rubare all’Africa. I pirati di terre siamo noi

Acquisizioni a due dollari l’ettaro. Così, depauperando intere regioni, i paesi ad alto reddito si sono accaparrati vaste aree subsahriane

Anna Bono
06/01/2013 - 9:25
Società
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Land grabbing, accaparramento di terre: l’espressione indica l’acquisto e l’affitto di appezzamenti agricoli di vaste proporzioni in paesi stranieri, per lo più economicamente arretrati, da parte di governi e di imprese private, un fenomeno in rapido aumento a partire dall’inizio del XXI secolo, legato soprattutto alla crescita della domanda mondiale di generi alimentari e di biocarburanti.

Gli stati poveri di terre coltivabili, come ad esempio l’Arabia Saudita, quelli densamente popolati come il Giappone e quelli emergenti, come la Cina, che devono far fronte al costante incremento della domanda interna di prodotti alimentari, da tempo hanno incominciato ad affittare e a comprare terreni all’estero per coltivarli e soddisfare così il fabbisogno nazionale di cibo. Tra i privati, le richieste provengono invece soprattutto dalle industrie produttrici di biocarburanti che necessitano di immense estensioni di terra per coltivare palme da olio, mais, colza, girasole, canna da zucchero e altre specie vegetali dalle quali ricavano il carburante alternativo ai prodotti petroliferi.

Alcune cifre rendono un’idea dell’entità del fenomeno. Per quanto è dato sapere, il governo e le imprese private della Corea del Sud sono proprietari di almeno 2.306.000 ettari di terre all’estero. Seguono la Cina, con 2.090.796 ettari, l’Arabia Saudita, con 1.610.117 ettari, gli Emirati Arabi Uniti, con 1.282.500 ettari, il Giappone, con 324.262 ettari.

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Il cosiddetto land grab è in sostanza un modo economico e remunerativo di accedere a nuove risorse naturali e di produrre cibo ed energia: giova alle popolazioni che grazie ad esso possono disporre di maggiori generi di prima necessità a prezzi sostenibili e contribuisce alla salute del pianeta consentendo la diffusione di fonti energetiche alternative, ritenute meno inquinanti e dannose per la salute umana.

Ma c’è un rovescio della medaglia, anzi più di uno. Innanzi tutto a rendere attraente questo tipo di investimenti – come risposta sia al fabbisogno alimentare che a quello energetico – sono le condizioni alle quali in genere i contratti vengono stipulati.

Due terzi dei terreni e delle risorse naturali “accaparrati” in questi ultimi anni – ed è questo un altro dato essenziale per capire portata e conseguenze del fenomeno – si trovano in Africa e in particolare in Africa subsahariana. La Corea del Sud ha acquisito nella sola isola di Madagascar 1.300.000 ettari, pari alla metà dei terreni agricoli del paese, destinati a colture di mais e olio di palma.

La ragione è che i governi africani cedono i loro terreni a condizioni estremamente allettanti per gli acquirenti, tanto favorevoli da rendere poco rilevanti i notevoli fattori negativi, di rischio – mancanza di infrastrutture, instabilità politica, presenza di movimenti e bande armati – che altrimenti forse sconsiglierebbero gli investimenti. Innanzi tutto è il costo di locazione e di vendita a compensare oneri e rischi, peraltro in certi casi davvero elevati. I prezzi dei terreni infatti diminuiscono in funzione della loro lontananza dai terminali marittimi e aeroportuali, delle spese in infrastrutture e in servizi di sicurezza necessarie a consentirne lo sfruttamento. L’affitto di un appezzamento può ammontare anche soltanto a uno o due dollari all’anno per ettaro.

Libertà troppo ampie e scarsi controlli
In secondo luogo molti governi africani, se non tutti, lasciano ampia libertà ai nuovi proprietari per quanto riguarda l’impiego delle terre cedute. Non si interessano realmente dell’uso che intendono farne e non pongono condizioni né attuano controlli affinché vengano rispettate le norme a tutela dell’ambiente – che in verità spesso nei paesi considerati neanche esistono o sono disattese – permettendo che inquinino ed esauriscano suoli e acque se lo ritengono economicamente vantaggioso, a scapito delle comunità locali e del patrimonio naturale nazionale.

Basta leggere il testo dei contratti per rendersene conto. A giovarsi del land grabbing, oltre evidentemente agli acquirenti, sono i governi africani che nella cessione sconsiderata di terre e risorse nazionali vedono un modo facile e sicuro di far soldi senza investire in progetti economici e sociali ed evitando i rischi e le incognite del mercato nero e dell’evasione fiscale: sono i governi, infatti, non le comunità locali, a incassare il denaro di quasi tutte le vendite e gli affitti. Non è una novità. Succede da decenni con le risorse minerarie ed energetiche: oro, diamanti, petrolio, ecc. È evidente poi che i terreni rurali renderebbero molto di più alle popolazioni autoctone, e ai loro paesi, se fossero loro a coltivarli, a sfruttarli e a commercializzare i raccolti vendendoli agli stati e alle imprese stranieri: meglio ancora se poi si sviluppassero industrie locali di trasformazione con i relativi indotti. Il danno è ancora maggiore se si considera che, per far posto ai nuovi proprietari, ogni volta innumerevoli famiglie, talvolta decine di migliaia, perdono mezzi di sostentamento e casa.

I governi africani consentono che gli abitanti delle terre cedute vengano costretti ad andarsene, se necessario con la forza, lasciando abitazioni, campi e pascoli: talvolta senza ricevere risarcimenti e in altri casi ottenendo in cambio inadeguate somme di denaro oppure il reinsediamento in altre aree del paese, spesso però periferiche, prive di servizi e di infrastrutture e meno adatte alla vita umana. Data la situazione, quindi, si possono considerare fortunati gli africani che vengono assunti come braccianti e operai dalle imprese straniere quando queste non decidono di impiegare invece prevalentemente manodopera del loro paese piuttosto che quella locale.

Tutto questo succede nel continente della fame, che importa generi alimentari a caro prezzo, l’unico in cui denutrizione e malnutrizione continuano ad aumentare, come documentano ogni anno i rapporti della Fao e degli istituti internazionali di ricerca.

Terre di nessuno destinate ai “predoni”
In realtà, poi, per quanto riguarda l’Africa, le previsioni sono apocalittiche. Rights and Resources Iniziative, una coalizione internazionale di Ong, ha pubblicato nel febbraio del 2012 i risultati di una ricerca condotta in 35 stati africani secondo la quale la maggior parte degli 1,4 miliardi di ettari di terre rurali africane, dai quali dipende la sopravvivenza di almeno 428 milioni di contadini poveri subsahariani, non risultano proprietà di nessuno, a disposizione dei governi che possono servirsene a loro discrezione, approfittando di sistemi di proprietà lacunosi e del potere di cui così spesso fanno cattivo uso.

Dall’indagine risulta inoltre che soltanto nove dei 35 stati considerati prevedono norme e leggi a reale tutela dei diritti fondiari dei cittadini. Ma anche in quei paesi le leggi per lo più non vengono rispettate e di rado comunità e individui vengono coinvolti nelle trattative di vendita e affitto, persino nel caso in cui si tratta di terre registrate come proprietà privata.

L’organizzazione non governativa internazionale Human Rights Watch e il Movimento di solidarietà per una nuova Etiopia sostengono, ad esempio, che tra il 2008 e il 2011 il governo di Addis Abeba ha affittato per periodi di 20, 30 o 99 anni già 3,5 milioni di ettari. Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila, avrebbe invece nel frattempo affittato – con contratti molti dei quali negoziati e sottoscritti senza consultare governo e parlamento – 33,5 milioni di ettari di foreste.

Inoltre è il tipo di raccolti prodotti grazie al land grabbing a costituire un problema, e non soltanto per le popolazioni africane. Di per sé il fatto di destinare vaste estensioni di terra coltivabile a raccolti per l’esportazione invece che a generi alimentari per il mercato interno e per la sussistenza non è, come molti credono, un danno: purché i ricavi ci siano e vengano utilizzati convenientemente.

Tuttavia in Africa, un continente colpito ogni anno da scarsità stagionali e in certi casi permanenti di generi alimentari di base, la perdita di raccolti alimentari, poiché centinaia di migliaia di ettari di terreni vengono usati per produrre cibo destinato a consumatori stranieri, contribuisce a far lievitare i prezzi dei prodotti alimentari e quindi peggiora e amplia le carestie che  colpiscono gli abitanti.

A peggiorare il quadro è il fatto che tante terre fertili siano destinate alla produzione di biocarburanti a scapito delle colture alimentari per ricavare energia. Le ripercussioni in questo caso riguardano non solo l’Africa, ma l’intero pianeta. La riduzione delle terre coltivate per produrre cibo, causata dall’incremento delle colture di derrate per biocarburanti, ha contribuito a provocare la grave crisi alimentare mondiale del 2008 che ha fatto crescere i prezzi del grano del 77 per cento e del riso del 18 per cento (fino a punte del 150 per cento) con conseguenti aumenti generalizzati dei prezzi dei prodotti alimentari sia di origine vegetale che animale.

Tags: africaarabia sauditaCinacorea del sudhuman rights watch
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