
Assuntina Morresi ha già fatto chiarezza su tempi.it a riguardo della polemica sulla regolamentazione dell’aborto farmacologico in Umbria. Oggi una drammatica conferma “esperienziale” di cosa significhi abortire in solitudine appare sulle pagine di un giornale non sospettabile di simpatie pro life: Repubblica. Nella rubrica delle lettere c’è la missiva di Arianna Villanova, «40 anni, Padova, impiegata nella Pubblica Amministrazione».
La signora Villanova, come si intende dal suo scritto, è «poco cattolica e affatto praticante», è «favorevole alla legge 194», ritiene legittima «l’indignazione per visioni medioevali della donna» e pensa che «è orribile che, per colpa di medici obiettori, le donne debbano peregrinare da un ospedale all’altro».
L’espulsione della morte
Tuttavia, alla signora Villanova è capitata questa esperienza che descrive così:
«Ho 40 anni, un marito, una bellissima figlia di 3 anni. Dopo un anno di tentativi, a marzo scopro di essere incinta, una gioia grande, appannata solo dall’esplosione della pandemia. A metà aprile, ho delle perdite e scopro che ho perso il bambino. Sono nella decima settimana, ma il bambino non c’è più dall’ottava. Mi fanno il raschiamento, in day hospital; tre ore prima dell’intervento mi danno le prostaglandine, per preparare l’utero, e per due ore circa ho le contrazioni come se dovessi partorire. Terribile, soprattutto perché, nella mia testa, nel mio cuore e nella mia pancia, quei dolori sono associati alla vita, alla nascita di mia figlia, e invece, questa volta, sono solo finalizzati all’espulsione di morte. Comunque, va tutto bene e alla sera torno a casa, svuotata e un po’ più sola. Per fortuna sono forte e ho una bella famiglia».
Una ragazza sola nel bagno di casa
Quel che le è accaduto suscita in lei delle domande e delle considerazioni. Nel dibattito sulla pillola abortiva quel che non si dice è che, dopo averla presa, «bisogna espellere quello che resta. Che l’espulsione non è una passeggiata, che i dolori sono forti e bisogna essere preparati. Tutto questo è già duro per una donna di 40 anni, non so come possa essere gestita magari da una ragazza giovane, sola, nel bagno di casa».
Prendere la cosa alla leggera
Ecco dunque che sul giornale alfiere del “diritto di abortire”, per mano di una donna non ostile alla legge 194, ma che ha provato sulla sua pelle cosa significhi, appaiono domande semplici, laiche, dirette su cui tanti farebbero meglio a confrontarsi:
«Chi sostiene con assoluta convinzione la pillola abortiva, è mai stato chiuso in casa, con le contrazioni, per espellere un morto? Siamo sicuri che sia opportuno che un evento così doloroso e il cui iter può anche spaventare se non correttamente informate e sostenute, sia affrontato in piena autonomia, da chiunque e in qualunque situazione? Non si corre il rischio di prendere la cosa alla leggera, e non da un punto di vista morale, ma di gestione dell’evento? Non so».
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