
È bene fare chiarezza sulla polemica nata intorno alla regolamentazione dell’aborto farmacologico in Umbria.
Come è noto, la giunta regionale ha emanato qualche giorno fa le linee di indirizzo sanitarie per la Fase3 dell’emergenza Covid-19, indicando per lo svolgimento delle interruzioni volontarie di gravidanza un cambiamento rispetto ad una delibera della giunta precedente, del dicembre 2018: l’attuale governo umbro, guidato da Donatella Tesei (Lega), ha stabilito di attenersi alle linee di indirizzo ministeriali, che indicano per la procedura farmacologica il ricovero ospedaliero ordinario, cioè di restare in ospedale per tutta la durata dell’aborto, fino all’espulsione del concepito. La precedente giunta, invece, a guida Catiuscia Marini (Pd) aveva deciso di disattendere quelle indicazioni per effettuare gli aborti con Ru486 in regime di Day Hospital, secondo cui si può tornare a casa anche se l’aborto non è concluso.
Con la delibera della Tesei è scoppiato il finimondo politico: la minoranza regionale ha sollevato una polemica durissima, che però non ha alcuna ragion d’essere, sia per motivi di metodo che nel merito della questione, e rivela piuttosto il solito tic ideologico di certa sinistra, che trova spesso facile sponda nei cinquestelle.
Nel metodo, sarebbe sufficiente per la sinistra ascoltare Stefano Bonaccini, il governatore dell’Emilia Romagna, che onestamente ha riconosciuto la legittimità dell’atto della Tesei, pur ribadendo la personale contrarietà al contenuto. Lo ha fatto perché, a differenza di tanti suoi colleghi di partito, è ben consapevole della contraddittorietà delle proteste e vuole tenersi stretta la propria indipendenza politica. Spieghiamo perché.
Nel 2010, il ministero della Salute ha emanato le linee di indirizzo per la regolamentazione dell’aborto chimico, basate su tre diversi pareri del Consiglio superiore di Sanità, con una diversa composizione dei Consigli che li hanno redatti. Ovviamente anche la delibera Aifa collegata, del luglio 2009, era coerente con queste indicazioni.
L’Emilia-Romagna decise di disattendere quel pronunciamento e di adottare linee guida in dissenso, prevedendo fin da subito il percorso abortivo farmacologico in Day Hospital. Il ministero non si oppose perché l’assetto normativo consente questa difformità, anche se impropria.
Nel tempo, altre regioni – poche – hanno seguito l’Emilia-Romagna: la Toscana, il Lazio e, nel 2018, contemporaneamente la Lombardia a guida leghista e l’Umbria a guida Pd.
È stato quindi possibile discostarsi dalle indicazioni ministeriali, e lo sarà ancora se cambieranno le Linee di Indirizzo.
Ed è doppiamente assurdo protestare per il provvedimento della giunta Tesei.
Innanzitutto per il fatto in sé: secondo quale tortuosità mentale va contestata una amministrazione regionale che decide di seguire in ambito sanitario le indicazioni del ministero della Salute? E poi perché voler impedire alle regioni l’autonomia nella propria organizzazione sanitaria, e perché lo fanno proprio a sinistra, proprio coloro che di quella autonomia se ne sono fatti vanto quando alcune loro amministrazioni hanno scelto il Day Hospital?
Nel merito: l’aborto chimico è di per sé un metodo abortivo più incerto, lungo, e rischioso di quello chirurgico. Dal momento in cui la donna assume la prima delle due pillole, la Ru486 che causa il distacco dell’embrione dalla parete uterina, non può sapere se, quando e come l’aborto avverrà. Alcune donne – il 5 per cento circa – abortiscono prima del terzo giorno, prima cioè della somministrazione della seconda pillola, che induce l’espulsione del concepito. Una percentuale intorno al 60 per cento abortisce il terzo giorno, entro 4-6 ore dall’assunzione della seconda pillola. Il resto abortisce nelle ore o nei giorni successivi – un tempo lunghissimo, quindi. Il 5-8 per cento dovrà ricorrere comunque a un intervento chirurgico per aborto incompleto o mancato. Serve un antidolorifico, più o meno potente a seconda della reazione di ogni singola donna; l’emorragia, gli effetti collaterali (vomito, diarrea, nausea) e avversi (ad esempio infezioni ed emorragie severe) sono diversi da donna a donna, più pesanti e importanti man mano che avanza la gravidanza.
Per i sostenitori dell’aborto chimico sarebbe un segno di libertà della donna abortire da sola nel bagno di casa, controllando quanto tempo ci mette un assorbente a riempirsi, stando nel frattempo al telefono con il medico di turno per capire se l’emorragia è sotto controllo oppure se è meglio andare in ospedale, chiaramente non da sola ma accompagnata in macchina. Tutto questo nella consapevolezza che la mortalità per aborto chimico è dieci volte maggiore di quella per aborto chirurgico.
La chiamano autodeterminazione. Ma sono i misteri dell’ideologia.
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