
Risiko Libano
Beirut (Libano)
Sono fantasmi discreti, invisibili, ma onnipresenti. Dal confine con Israele alla valle della Bekaa fin nel cuore di Beirut. Niente armi, nessuna divisa, nessun simbolo e nessuna apparenza. Solo una capillare continua presenza. Sono i due ragazzi in moto dietro ad un convoglio di caschi blu nel sud del paese. Un’auto parcheggiata cento metri oltre il posto di blocco dell’esercito libanese sul fiume Litani. Quattro anonimi signori in giacca sdrucita e barbetta con i tuoi documenti in mano nella banlieue sud della capitale. Sono lo stuolo di militanti accampati da un anno nel ventre paralizzato di Beirut. Un solo esercito, un’unica compatta armata pronta a marciare. O pacificamente, immobilizzando una nazione. O militarmente, fronteggiando l’esercito d’Israele. Sono Hezbollah, il partito di Dio, uno dei grandi demiurghi dei destini libanesi.
Il loro capo, il segretario generale, si chiama Hassan Nasrallah, vive randagio tra i sotterranei della periferia sud di Beirut, la valle della Bekaa e la frontiera con Damasco. Una vita in fuga dai missili d’Israele, ma anche una vita nel segno e nel rispetto del vero padrone. Quello indicato nel manifesto del Partito di Dio pubblicato il 16 febbraio 1985 sul quotidiano al Safir. E da allora mai rinnegato. «Siamo i figli dell’umma (comunità islamica), il partito di Dio (Hezb Allah) la cui avanguardia è stata resa vittoriosa da Allah in Iran. (.) obbediamo alla volontà di un leader, saggio e giusto, quella del nostro tutore e del nostro giurista (faqih) che soddisfa tutte le condizioni necessarie: Ruhollah Musawi Khomeini, che Dio lo preservi». Da allora è cambiato tanto e nulla. Hezbollah è diventato un partito politico, ha affiancato l’impegno sociale a quello militar-religioso, ma la sua essenza non è cambiata. La sua anima continua ad albergare a Teheran e a ricevere il proprio afflato vitale dalla “Suprema guida” iraniana. L’imam Khomeini allora, l’ayatollah Alì Khamenei oggi. Fu Khamenei una quindicina d’anni fa a scommettere sul carismatico Nasrallah. Sarà la suprema guida iraniana a decidere il nome del suo successore.
Farid Makari potrebbe dunque aver ragione. È il vice presidente del Parlamento libanese, sopra di lui c’è Nabih Berri il capo sciita di Amal, il fedele amico della Siria che da fine settembre si rifiuta di convocare il Parlamento. Farid è un avvocato cristiano, ma ha lavorato per trent’anni al fianco di Hariri e conosce ogni virgola della politica libanese e della impossibile corsa alla presidenza. «I francesi – spiega – hanno sbagliato tutto. Sarkozy è andato negli Stati Uniti ed ha incominciato ad attaccare l’Iran e a blandire Damasco, non ha capito chi conduce i giochi. Da quel momento in poi la presidenza è diventata un gioco impossibile, Hezbollah ha ricevuto l’ordine di bloccarla a tutti i costi e la Siria ha dovuto rispondere picche».
L’ultimo tentativo di eleggere il presidente è fallito venerdì scorso alle 13. Undici ore dopo Emile Lahoud, il presidente amico di Damasco, ha fatto le valige ed ha lasciato il palazzo di Baabda affidando i destini del paese all’esercito. Domenica mattina davanti alla folla riunita sotto lo sventolio di bandiere gialle della banlieue sud di Beirut Naim Qassem, il numero due di Hezbollah, lancia l’ennesimo sibillino vaticinio. Definisce illegittimo il governo di Fouad Siniora, lo accusa di volersi appropriare illegittimamente delle competenze e dei poteri presidenziali, ma ipotizza anche un compromesso in vista della prossima sessione di voto del 30 novembre. «Avanti – dice – sfruttiamo l’opportunità… se siete seri possiamo raggiungere l’elezione in una settimana, altrimenti i tempi diventeranno assai lunghi».
Quanto pesano i missili
Per l’ex ambasciatore Mohammed Shata, il più ascoltato consigliere del premier Fouad Siniora, quelle parole sono l’ennesimo ricatto, l’invito a piegarsi e ad accettare un candidato imposto dall’opposizione pena il disordine permanente. «Il loro obbiettivo non è prendere il potere con la forza, ma mantenere il paese nell’instabilità. A differenza della Siria, Teheran ed Hezbollah non vogliono lo sfascio, s’accontentano dello squilibrio. Hezbollah per moltissimi libanesi rappresenta la “resistenza”, il partito milizia capace di fronteggiare Israele, e si guarda bene dal prendere le armi contro il proprio stesso paese. Fomentando una guerra civile o degli scontri Hezbollah perderebbe il rispetto della nazione. Le armi per il partito di Dio sono solo una leva da usare per intimorire il governo, mantenere l’occupazione del centro di Beirut e impedire un’elezione a maggioranza semplice. In questo gioco a scacchi la violenza è solo l’estrema ratio».
In questo sofisticato risiko la potenza militare di Hezbollah ha un preciso peso politico. Annunciare le più imponenti esercitazioni degli ultimi dieci anni e far sapere di averle svolte sotto gli occhi dell’Unifil, rendere noto l’avvenuto completo riarmo, la piena sostituzione di tutte le testate missilistiche usate durante la guerra con Israele dell’estate 2006, far trapelare le voci sull’addestramento nei campi della Bekaa di centinaia di miliziani appartenenti ai gruppuscoli cristiani del generale Michel Aoun, ai sunniti e ai drusi filosiriani getta altro piombo sulla bilancia della paura e dell’incertezza.
L’altra arma di Hezbollah si chiama Michel Aoun. Per i cristiani il suo nome è la vera ferita aperta, la piaga dolente, il rischio di perdere quel diritto alla presidenza considerato l’ultimo privilegio della loro tormentata storia. Per il generale la presidenza è invece l’assillo della vita. Nell’89 per ottenerla sfidò la Siria, ignorando le alleanze della prima guerra a Saddam Hussein, l’asse creatosi tra Washington e Damasco. Sopravvisse solo grazie all’aiuto della Francia: fuggì a Parigi e si lasciò dietro un paese diviso. Quando nel 2005 tornò dall’esilio e scoprì di non essere né l’atteso Messia, né il predestinato alla presidenza si trasformò nel Quisling cristiano: abbandonò la maggioranza e offrì la propria alleanza e i propri fedelissimi al campo di Hezbollah e della Siria. A 72 ani suonati il generale, simbolo un tempo della resistenza ai siriani, è diventato l’immagine del tradimento, l’icona dello sbandamento e delle divisioni. Oggi Aoun è il cristiano pronto a svendersi al nemico nel nome di una scellerata ambizione senile. Del resto in base al Patto costituzionale il presidente non può che essere cristiano e dunque la pedina Aoun diventa nelle mani di Hezbollah e filosiriani la punta di lancia di una strategia dirompente.
Se la presidenza diventerà un palazzo vuoto, se i cristiani saranno costretti ad accettare una modifica costituzionale e a perdere l’ultimo privilegio, se il Libano si avvicinerà sempre più all’asse iraniano sarà, come dice Farid Makari, anche merito di Aoun e dei suoi deputati. «Io capisco – dice a Tempi il vice presidente del Parlamento – gli esponenti sciiti pronti a imporre la serrata dell’Assemblea per garantire alla propria comunità e ai suoi alleati maggior peso politico, ma non capirò, né giustificherò mai quei deputati cristiani pronti al suicidio comune per difendere biechi interessi personali».
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