Restituire l'anima ai malati di mente dell'Africa. La missione di Grégoire
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Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Lo chiamano il «Basaglia africano», e in effetti ha ricevuto nel 1998 il premio Basaglia. L’immagine più potente, e più nota, della sua figura, è quando si presenta in pubblico con una catena arrugginita al collo e racconta a chi lo ascolta come sia riuscito a toglierla dal corpo di un malato mentale imprigionato dalla sua stessa famiglia. Qualche anno fa ne ha mostrata una perfino a Benedetto XVI, in piazza San Pietro. Perché la forza che ha permesso a quest’uomo nato in Benin e immigrato per oltre trent’anni in Costa d’Avorio, senza aver fatto studi di medicina, di liberare dalle catene migliaia di persone afflitte da una malattia mentale, spesso imprigionate perché considerate indemoniate, è stata e continua a essere la fede cristiana. Si chiama Grégoire Ahongbonon e sarà presente in Italia nei prossimi giorni per presentare un libro a lui dedicato, intitolato semplicemente Grégoire. Quando la fede spezza le catene, scritto da Rodolfo Casadei e pubblicato da Emi (parlerà a Torino giovedì 10 maggio, prima al Salone del Libro e poi al Cottolengo; poi a Udine domenica 13, giorno dell’anniversario dell’introduzione della legge Basaglia, nella rassegna «Vicino Lontano»).
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Non è un caso che l’opera da lui fondata sia dedicata a Camillo de Lellis, il santo che considerava i malati «la pupilla e il cuore di Dio». Così per Grégoire i malati di mente sono «gli ultimi degli ultimi» che lui ha scelto per incarnare il dettato evangelico. Dovendo innanzitutto combattere con l’atavica mentalità africana, ben lungi dall’essere sconfitta, in cui prevale l’ipoteca del mondo degli spiriti. Senza parlare poi della venalità che contraddistingue molte iniziative nate per rispondere ai bisogni sociali, perlopiù purtroppo ammantate di una patina religiosa. Grégoire ha avuto il merito di convincere moltissimi suoi connazionali che la malattia mentale è appunto una malattia che si può curare, che non si tratta di una maledizione divina, dovuta alla stregoneria o all’azione del demonio. Il malato mentale è innanzitutto una persona che ha bisogno di ascolto e di cure efficaci e non può essere lasciato solo o addirittura incatenato. Invece ancor oggi in Africa è spesso considerato un uomo cui è stata mangiata l’anima, tanto che gli stregoni che si pensa siano dietro la malattia vengono chiamati mangeurs d’âmes, mangiatori di anime.
La svolta nella sua vita accade nel 1982. Da qualche anno egli vive con la moglie e i figli a Bouaké, prima facendo il gommista e poi il taxista. Ma la sua attività non va bene e si riduce sul lastrico. In preda alla disperazione, incontra un missionario francese che l’invita a un pellegrinaggio in Terrasanta. Qui accade il miracolo, una vera e propria conversione. Tornato in Costa d’Avorio, egli decide di dedicarsi ai poveri e inizia a rivolgere le sue attenzioni verso i ricoverati all’ospedale e i detenuti nel carcere. Un giorno, incontra un uomo seminudo che disperatamente fruga in un immondezzaio alla ricerca di qualcosa da mangiare: Grégoire vede subito che si tratta di un malato di mente. In Africa infatti è molto facile vederne in mezzo alla strada. Da lì la decisione di dar vita a un centro d’accoglienza, nella buvette dismessa dell’ospedale: è così che nasce la San Camillo, destinata in pochi anni a espandersi sempre più. Il primo vero centro di accoglienza per malati psichiatrici è tutto femminile e viene inaugurato nel 1994. Oggi sono dieci, cui si accompagnano sei centri di reinserimento. In 25 anni, Grégoire con i suoi collaboratori, la moglie Léontine in primis, ha assistito sessantamila malati mentali espandendo la sua attività in quattro Paesi: oltre che in Costa d’Avorio, la San Camillo è presente in Benin, Togo e Burkina Faso.
Ma cos’è che caratterizza l’impostazione dei centri da lui creati? Come scrive Eugenio Borgna nella prefazione al volume di Casadei, «il climax dominante è quello di comunità nella quale chi cura e chi è curato si rispecchiano l’uno nell’altro nel contesto di un atteggiamento interiore nutrito di gentilezza e di comprensione, di accoglienza e di amore, di attesa e di speranza: in un orizzonte ideale di equivalenza umana e cristiana». Non ci sono contenzioni, i malati sono liberi di muoversi al loro interno e stimolati al lavoro, gli psicofarmaci sono somministrati solo quando è necessario. Il secondo livello sono i centri di reinserimento, che hanno l’aspetto di fattorie collettive perché non mancano mai le attività agricole e di allevamento: così il malato impara un lavoro o riprende familiarità con l’attività che faceva prima di ammalarsi. E a poco a poco è in grado di tornare alla vita precedente; non mancano poi i casi di persone guarite che restano nei centri per aiutare Grégoire nell’opera di cura. Infine, c’è un terzo stadio, i centri di relais. Si tratta di ambulatori sparsi sul territorio che da una parte fanno da filtro per l’igiene mentale, dall’altra continuano a seguire le persone uscite dai centri di reinserimento per evitare le ricadute.
Come scrive ancora Borgna, si tratta di «modelli di cura non lontani da quelli che hanno consentito a Franco Basaglia di realizzare una psichiatria aperta alla comprensione della follia, e alla solidarietà». La differenza è che Basaglia era uno psichiatra ed agiva animato da un sentimento umanitario, il nostro Grégoire non ha alle spalle una preparazione medica ed è mosso dalla fede cristiana. Una fede che è riuscita a dar vita a una realtà davvero impensabile nel continente nero.
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