Memoria popolare
Le ragioni dell’impegno del Movimento Popolare per l’unità dei cattolici
Terza parte della rassegna dei contributi esposti al convegno “Operatori sindacali del Movimento Popolare” tenutosi a Rimini nel dicembre 1978, anno di nascita dell’Ufficio Lavoro del Movimento Popolare. Tutte le uscite della serie sono reperibili in questa pagina.
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Dopo la relazione di Mario Spotti e il momento dell’assemblea nel corso della quale prendono la parola una decina di lavoratori, al convegno di Rimini del 16-17 dicembre 1978 “Operatori sindacali del Movimento Popolare” viene il momento della seconda relazione, che era stata chiesta a Rocco Buttiglione, a quel tempo professore ordinario di Scienza della politica presso l’Università di Teramo.
Nella prima parte del suo intervento Buttiglione spiega perché la questione dell’unità dei cattolici fosse tanto importante per il Movimento Popolare e su cosa fosse basata. «Il metodo della nostra presenza è l’unità», esordisce il docente, «ed in primo luogo l’unità fra i cristiani. Questa è una cosa che abbiamo detto molte volte, è quasi un tema costante del nostro discorso; pure è anche l’affermazione che più suscita difficoltà ed obiezioni, che ci fa accusare di integralismo e, paradossalmente, di chiusura. Come può avvenire che chi lavora per l’unità possa essere accusato di chiusura o di settarismo?».
Il fatto è che
«c’è, nel passato, un modello di unità dei cattolici che vuole i cattolici uniti negli ambienti perché cattolici, indipendentemente dal giudizio che essi portano sulla situazione e quindi dalla passione che li anima nello stare dentro la situazione. In nome dell’unità si finisce con lo stare nella situazione senza un giudizio, senza una passione. Il risultato è che poi nella situazione non si è veramente presenti, non la si assume veramente. È a partire dall’esperienza deludente di questo tipo di unità dei cattolici che molti sindacalisti, anche di estrazione cristiana, sono diventati nemici della frase stessa “unità fra i cattolici”. Essa per loro vuol dire stare nelle situazioni senza un giudizio, o con un giudizio depotenziato, evirato, non operativo, delegando in ultima istanza ad altri (i politici democristiani, la gerarchia ecclesiastica) il giudizio che guida l’azione».
L’unità che nasce da un giudizio
Invece l’unità fra i cristiani che il Movimento Popolare propone nasce da un giudizio, ma questo non è un giudizio meramente politico.
«Quando noi parliamo dell’unità fra i cristiani non abbiamo nessuna intenzione di ripetere un simile modello di presenza e di azione. Noi parliamo di unità fra i cristiani perché siamo convinti di possedere un giudizio sulla esperienza concreta e storica dentro la quale siamo presenti, che è sufficientemente ampio, radicale e magnanimo per valorizzare tutte le diverse esperienze che i cattolici fanno. L’unità, per noi, parte da un giudizio ed appunto per questo non genera una passività ed una delega ma impegna in prima persona, suscita una passione».
«Da questo giudizio nasce una unità che non è imposta ed è sperimentata come liberante, valorizzante le singole esperienze. Questa unità non è appena l’unità fra i cattolici, ma fra tutti quelli che stanno nel sindacato, anzi, nel mondo del lavoro. Se vogliamo lavorare per l’unità dei cristiani non è affatto per essere più forti, ma perché siamo convinti che i cristiani hanno le capacità di valorizzare le esperienze umane ed anche le tradizioni culturali degli altri, sono cioè, globalmente presi, capaci di un giudizio così ampio e magnanimo da non escludere nessuno, da non emarginare nessun frammento di umanità e di verità, anche se a portarlo fossero i nemici più dichiarati dei cristiani e del cristianesimo stesso».
Gli elementi del giudizio
Il giudizio non è una riserva degli intellettuali e degli specialisti.
«Il giudizio è il modo in cui la persona si orienta nella situazione nella quale si trova, stabilisce i suoi fini e il modo di raggiungerli, la direzione del suo movimento. Il giudizio, quindi, è qualcosa di estremamente pratico e concreto. Per dare un giudizio non è necessario possedere strumenti di analisi estremamente raffinati. Basta riflettere sui dati della propria esperienza».
«Per dare un giudizio è necessario che ci sia un soggetto che ha una storia e un interesse ed una conoscenza della situazione nella quale si trova. Il giudizio è infatti un nesso tra una storia che ha fatto intuire un valore ed una situazione presente nella quale il valore va ritrovato. Un gruppo di persone che si trovano fuori della situazione a coltivare la memoria di una esperienza umana che hanno vissuto insieme, fosse anche una esperienza cristiana bellissima, non sono una presenza nel sindacato e, se pretendessero di esserlo, cadrebbero nel moralismo e nel sentimentalismo più banali. Un gruppo di persone che sapessero tutto sulla situazione del sindacato, ma non hanno storia e memoria di un valore vissuto che sta prima del sindacato ed è più grande del sindacato egualmente non fanno presenza e giudizio. Il giudizio è invece il risultato di ambedue questi elementi; è un modo di stare nella situazione che nasce da una storia e da una lettura della situazione».
Il primo giudizio umano
«Proprio perché il giudizio nasce da una storia è naturale comunicarselo in primo luogo fra quelli che hanno in comune la stessa storia, per aiutarsi e correggersi. Il giudizio però è per tutti. Noi infatti crediamo che la nostra storia (la storia della conversione degli uomini a Cristo) è la storia che sa valorizzare, ricapitolare, come dice san Paolo, tutte le storie. Ma da cosa nasce la capacità di questo giudizio unificante e comprensivo? L’unico modo di fare unità, che permette di valorizzare tutto ciò che di umano c’è in ciascuno, è andare al fondo della esperienza umana, cogliere radicalmente il bisogno dell’uomo.
Però nulla e nessuno mi possono insegnare questa profondità, essa non si impara con un esercizio della memoria e della intelligenza. La capacità di andare al fondo della esperienza umana si impara solo andando al fondo della propria esperienza, di quello che ciascuno fa. Ma di nuovo anche questo è un dono, un incontro. Gesù Cristo è il fondo della questione, l’oggetto del desiderio che ultimamente fa vivere gli uomini.
L’incontro con Gesù Cristo è l’incontro con il giudizio di Dio sugli uomini e su di me. Il primo giudizio umano, quello la cui memoria sorregge e guida tutti gli altri giudizi che un uomo può dare nella vita, è il semplice riconoscimento di quel giudizio, che Dio in Cristo ha dato su di me e sul mondo. Per questo tutto il nostro sapere e tutto il nostro lavoro partono da un incontro».
La ragione dell’apertura cristiana
«L’esperienza dell’incontro libera dalla necessità di costringere la realtà ed anche la mia vita dentro uno schema, per controllarla e per impadronirsene. Esso libera la capacità di un’attenzione gratuita a me stesso ed agli altri. È da questa attenzione gratuita che nascono i giudizi secondo cui ci orientiamo nella realtà. Questo è il punto che assolutamente dobbiamo sottolineare se vogliamo evitare di costruire ancora uno schema per imprigionare la realtà e se vogliamo invece incominciare a vivere.
Dire che il fondo della questione è l’incontro personale con Cristo non significa che Gesù Cristo o il cristianesimo o il Vangelo diventano la chiave di volta di un nuovo schema che mi permette di padroneggiare la realtà. Al contrario l’incontro con Cristo è il fondo della questione perché è solo a partire da lì che io divento capace di un’attenzione piena di simpatia per me stesso e per gli altri e divento capace quindi di ascoltare veramente ciò che è umano e di comprenderlo.
Naturalmente non si può accogliere ciò che è umano se al tempo stesso non si combatte fermamente in ogni posizione ciò che è distorto, inadeguato o nemico della verità. Ma anche il modo di lottare contro un avversario è diverso se al fondo c’è un ascolto ed una sincera volontà di valorizzare ciò che di vero e di buono c’è nella sua posizione. La creatività nasce dall’ascolto e questo dal rinnovamento della persona».
(3. continua)
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