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«Racconterò al Papa il sacrificio di mio figlio, ucciso dall’Isis»

Intervista a Duha, la donna che parlerà davanti a Francesco nella chiesa dell’Immacolata Concezione a Qaraqosh. Ecco la sua storia e cosa gli dirà

Leone Grotti
06/03/2021 - 4:00
Esteri
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Una immagine di David, 4 anni, il figlio di Duha ucciso da un colpo di mortaio sparato dai jihadisti dell’Isis

DAL NOSTRO INVIATO IN IRAQ – SOSTIENI IL REPORTAGE DI TEMPI CLICCANDO QUI

«Parliamo di tutto, ma non farmi domande su quella mattina. È stato un giorno terribile e ricordarlo sarebbe troppo doloroso». La mattina di cui parla Duha, cristiana di 37 anni, è quella del 6 agosto 2014. I terroristi dello Stato islamico si stavano avvicinando a Qaraqosh, nella notte tutti avevano sentito i colpi di mortaio esplodere vicino alla città, ma nessuno pensava che il pericolo fosse reale. Quella mattina, il figlio di Duha, il piccolo David, appena 4 anni, stava giocando in cortile insieme al cugino e alla figlia di una vicina. È in quel cortile che cadde la prima bomba lanciata dai jihadisti all’interno della città della Piana di Ninive, uccidendo sul colpo i tre bambini.

La loro morte fu uno shock per l’intera città che, terrorizzata, si decise a fuggire nella notte tra il 6  e il 7 agosto. «Il martirio di mio figlio ha salvato i cristiani di Qaraqosh», parla la madre a fatica accogliendoci nella sua casa, visibilmente povera e riscaldata soltanto da una stufa. «Se non fosse stato ucciso, nessuno avrebbe percepito il pericolo e saremmo rimasti tutti qui. E avremmo fatto la fine dei yazidi nel Sinjar: ci avrebbero sterminati tutti». Gli altri abitanti della città confermano le parole di Duha. Dalla conquista di Mosul da parte dell’Isis nel giugno 2014, infatti, i cristiani di Qaraqosh erano già scappati due volte dalla città temendo che i jihadisti potessero conquistarla. Ma dopo aver visto che non succedeva niente, erano sempre tornati indietro. La notte tra il 5 e il 6 agosto e la mattina, nonostante l’esplosione dei primi colpi di mortaio, tutti pensarono che sarebbe finita come le volte precedenti. Ma dopo la morte di David e degli altri due bambini, la gente si decise a scappare.

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Adeeb, padre del piccolo David ucciso dall’Isis, ritratto a casa sua

In Francia trattati benissimo

Duha, insieme al marito Adeeb e ai quattro figli Ainar, Yousif, Diva e Sarah, scapparono a Erbil dopo aver sepolto il figlio al cimitero. Rimasero appena un mese e mezzo nella capitale del Kurdistan iracheno, poi si trasferirono in Libano e, dopo circa otto mesi, scapparono in Francia. «Non volevamo tornare a Qaraqosh», racconta Adeeb: «Troppo pericoloso, troppi brutti ricordi».

In Francia rimasero due anni e tre mesi e sperimentarono forse per la prima volta «come dovrebbe davvero essere la vita. Siamo stati trattati benissimo, l’educazione per i nostri figli era ottima, soprattutto per la nostra Sarah, che soffre di disabilità». Ma quando Qaraqosh fu liberata, Duha e Adeeb si chiesero se non fosse meglio tornare. «Ci dissero che la città era libera dai jihadisti e che il cimitero era stato riaperto. Avevamo nostalgia di casa e volevamo assicurarci che la tomba di nostro figlio non fosse stata danneggiata».

Non ci trattano come esseri umani

Così, preso il coraggio a due mani, lasciarono la Francia per tornare a Qaraqosh. Qui trovarono la loro casa pesantemente danneggiata, come tutte le altre, e così si trasferirono nell’abitazione della sorella di Adeeb. Ma oggi, sono pentiti della scelta che hanno fatto: «Voglio che lo scrivi», insiste Duha, che sarà l’unica fedele a parlare davanti a papa Francesco nella chiesa dell’Immacolata Concezione. Nella sua storia, infatti, sono riassunte tutte le sofferenze del popolo iracheno. «Sarà difficile da sentire, ma abbiamo sbagliato a rientrare qui e noi oggi vogliamo tornare in Francia. Qui in Iraq non siamo trattati come esseri umani».

La famiglia si aspettava un aiuto da parte del governo e invece ha ricevuto solo dolori e umiliazioni. Non essendoci istituti o percorsi adeguati alle persone con disabilità, la loro Sarah, 14 anni, è stata costretta a lasciare la sua classe. «A scuola la trattavano male. Siamo andati al provveditorato di Ninive per cercare di trovare una soluzione e loro ci hanno detto che non potevano fare niente. “In fondo, il suo posto è in casa”, così ci hanno risposto», spiega il padre. «Ora ci sentiamo in colpa: in Francia aveva un’educazione e la trattavano bene».

I musulmani non ci vogliono

Anche soltanto ottenere il certificato di morte di David è stato un incubo: la trafila è stata lunga, complessa, e i funzionari governativi hanno preteso una tangente per rilasciare il certificato. «Io lo so perché ci trattano così», continua Adeeb, che lavora come insegnante: «Perché siamo cristiani. L’Isis sarà anche stato sconfitto, ma la loro mentalità non è morta. È ancora viva in questo paese, soprattutto a Mosul. Noi non facciamo che predicare l’amore verso tutti, ma i musulmani non ci vogliono: la loro religione insegna altre cose rispetto alla nostra».

Nonostante la delusione e lo sconforto, nel cuore di Duha e Adeeb non c’è odio e l’assassinio del figlio non ha minato la loro fede. «Anzi, è cresciuta ed è diventata ancora più grande», afferma Duha con il coraggio che solo una madre può avere. «Noi abbiamo perso la cosa più cara che avevamo al mondo. Anche prima non siamo mai stati attaccati al denaro, ma da quando David è morto abbiamo capito che tutti i beni materiali di questo mondo non valgono niente. Siamo molto cresciuti dal punto di vista spirituale e abbiamo capito che la fede è la cosa più importante».

Anche per questo, anche se l’Isis avesse proposto loro di restare a Qaraqosh a patto di convertirsi all’islam, non sarebbero mai rimasti: «Rinunciare a Cristo vorrebbe già dire morire. E allora perché non farsi uccidere piuttosto?».

Noi abbiamo perdonato

Quando chiediamo a Duha che cosa dirà domani al Papa, ripresa da tutte le telecamere del mondo, la risposta è sorprendente: «Gli dirò che noi abbiamo perdonato i jihadisti per aver ucciso nostro figlio. Non tocca a noi giudicare, sarà Dio a farlo. Ci hanno insegnato a perdonare ed è quello che abbiamo fatto».

Da quando il figlio è morto, Duha e Adeeb fanno una vita ritirata, preferiscono restare in casa («qui troviamo pace e serenità») piuttosto che uscire. Ma non vedono l’ora di incontrare il Papa: «La sua visita è un evento storico», esclama Adeeb. «Lui non viene solo per noi cristiani, ma per tutti. Speriamo che la sua presenza riesca a cambiare le cose per i cristiani, ma anche per i musulmani dell’Iraq». «Il nostro cuore è colmo di gioia», aggiunge Duha. «Sono un po’ spaventata all’idea di parlare davanti al Papa, ma è una paura mista a felicità».

@LeoneGrotti

Foto © Tempi

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Tags: Cristiani PerseguitatiIraqIsisPapa FrancescoPapa Francesco in Iraqqaraqosh
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