Quell’Eldorado made in Sicily

Di Pietro Piccinini
10 Giugno 2004
Centri ospedalieri di eccellenza internazionale, opere di beneficenza e creatività imprenditoriale crescono oltre il bronx e l’assistenzialismo. Attraverso la Sicilia, da Palermo a Catania

Andare in Sicilia è un po’ come attraversare età di miti stratificati e sedimentati, del tipo di quelli che negli ultimi decenni ci hanno offerto i professionisti di mafia e antimafia. «Secondo un vecchio schema che si ripete – nota Salvatore Taormina, capo di gabinetto della presidenza della Regione –, l’immagine della Sicilia è il prodotto di viaggiatori che, da Goethe in avanti, sono tre secoli che cercano l’arcadico pastorello, e se non lo trovano ecco i pianti greci sull’abusivismo, la mafia, il Gattopardo. Peccato che questo crogiolarsi nel mito romantico non renda ragione del cambiamento in atto in questa terra».

C’è chi la fortuna l’ha trovata a Palermo
A proposito di pastorelli… Dietro via Maqueda, tra i mercati di Ballarò e della Vucciria, s’aggrovigliano vicoli stretti, sporchi, poveri, pieni di sguardi da “malacarne”. Le targhe delle strade sono scritte in italiano, arabo ed ebraico. A un incrocio un bambino gioca a mirare i passanti con un pallone. Poi chiede scusa. Si cammina fra palazzine addossate l’una all’altra, in rovina, disabitate, annerite da chissà quali fuochi. Siamo nel cuore del bronx palermitano, eppure poco lontano da qui c’è la sede, inaugurata solo due mesi fa, dell’Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (Ismett). Ovvero 12mila metri quadrati di superficie; 44 letti per la degenza in camere singole, spaziose, condizionate; 14 posti in terapia intensiva con possibilità per i medici di intervenire in loco; quattro sale operatorie con l’attrezzatura più avanzata; informatizzazione al 100%; inglese parlato fluently da tutti gli operatori. In cinque anni nell’Istituto sono stati eseguiti più di 200 trapianti, con una sopravvivenza ad un anno dall’intervento del 90%. Solo il Centro Tumori di Milano vanta una sopravvivenza più alta, con il 90,5%. Il progetto Ismett è nato per iniziativa di un gruppo di epatologi dell’ospedale Cervello di Palermo. «Nel 1995 non esisteva ancora in tutto il Meridione alcuna struttura specializzata per i trapianti di organi, i medici facevano i tour operator – spiega la dottoressa Serena Pizzo –, non potevano che smistare i pazienti all’estero con conseguenze disastrose anche per la spesa pubblica». Quel gruppo si rivolse allora alla prestigiosa Università di Pittsburgh e cominciò con essa una collaborazione. «Oggi, vengono qui a farsi curare dall’Europa dell’Est e dal Medio Oriente. Anche perché a Pittsburgh non possono accettare tutti i pazienti e spesso consigliano loro di rivolgersi a noi», racconta il manager Ismett Salvatore Snaiderbaur, un palermitano che la fortuna l’ha inseguita fino in America, e l’ha poi trovata a casa sua.
Come la storia di Snaiderbaur, anche quella di Antonio Maurizio Miccichè comincia fuori dalla Sicilia e si compie a San Cipirello nella valle dello Iato, a una mezz’ora di macchina da Palermo, tra le colline dell’entroterra. Miccichè, classe 1959, ha studiato medicina a Padova e si è specializzato a Milano in reumatologia. Poi, quindici anni fa, la decisione di tornare a casa per far rifiorire l’azienda vinicola di famiglia, la cantina Calatrasi, una delle prime tre della regione, se non di tutto il Mezzogiorno. «La Sicilia è un paradiso per gli investitori. Innanzitutto ci sono i finanziamenti agevolati per il Sud. Poi ci sono le straordinarie risorse territoriali e quelle umane. L’unico ostacolo è quello di una terra abituata a dormire, dove mancano progetti a capillarità diffusa. Perciò, per avere un nuovo Eldorado, bisogna investire, nel turismo e nell’agroindustria». E qualcosa intanto dev’essersi mosso se quest’anno al Vinitaly di Verona c’erano 175 aziende a rappresentare la Sicilia, mentre dieci anni fa non arrivavano neanche a cinquanta.

Le cose si cambiano gratis
Quel che non è mai mancato, a Palermo, è la miseria. Ne sa qualcosa don Carmelo Vicari, parroco della Madonna di Lourdes nel quartiere della Zisa, tra i più disagiati del capoluogo siciliano. Cade a pezzi, la Zisa. È uno di quei posti in cui per strada gira sempre un sacco di gente sfaccendata, senza soldi, fatalisticamente sempre in attesa di un vento che porti fortuna. Ha 13mila parrocchiani e mezzi scarsi, don Carmelo. «La gente qui fatica a trovare occupazioni stabili. Un po’ per mancanza d’offerta, un po’ per trascuratezza personale. Nelle faccende di casa oppure sul lavoro, l’atteggiamento di fronte alla vita è poco creativo. Si attende oppure si pretende, ma intanto si vive come se la Zisa non fosse la propria casa, e i problemi non vengono affrontati». Con il Banco Alimentare di Palermo (vedi box pag. V) don Carmelo ha creato un punto di distribuzione di alimenti dove 350 famiglie del quartiere “fanno la spesa”, gratis. Ma ci tiene a sottolineare che non si tratta di mera carità, bensì di risposta ad un bisogno immediato – la fame – con un intento educativo. «Quando abbiamo cominciato con la distribuzione, ci siamo dovuti scontrare con la mentalità diffusa per cui tutto è dovuto. Le persone sono convinte che “l’ente” debba erogare per forza ciò di cui hanno bisogno, perché lo ritengono un loro diritto. Invece ho voluto che tutti capissero che nulla è dovuto e tutto è donato, gratuitamente, liberamente. Nessuno può recriminare un aiuto, nemmeno dal Banco Alimentare. Oggi ci sono famiglie che non vengono più a chiedere, ma si sono coinvolte nella distribuzione come volontari».
«Senza il Banco, come farei a preparare ogni giorno 54 kg di pasta a pranzo e 14 kg di minestra la sera, per dare da mangiare ai 430 poveri che vivono nei miei centri?». Biagio Conte quasi non si riesce a distinguere tra le decine di senzatetto che ospita nei suoi tre villaggi a Palermo. Vestito tutto di verde, barba lunga e incolta, visto da lontano fratel Biagio sembra un talebano. Anzi, un fricchettone. Insomma, un personaggio stravagante. Tuttavia, mentre accoglie i suoi ospiti e augura loro «pace e bene», i suoi occhi color mare luccicano sulla pellaccia abbronzata del volto, rivelando che Biagio Conte in realtà è ben consapevole di quello che dice e che fa. «Non ho mai sopportato quelli che si lamentano perché ci sono i problemi e perché nessuno li risolve, o quelli che dicono che “tanto il mondo, la politica, la società fanno schifo”. Io, a quelli, rispondo sempre: “Ma tu cos’hai cambiato?”. Il mio motto è “sbràcciati e lavora”». E, per potersi assumere le sue, di responsabilità, nei confronti dei barboni di Palermo, Biagio Conte s’è sbracciato eccome. A colpi di sit-in, s’è fatto assegnare il rudere del disinfettatoio pubblico (dove oggi si trova la sua “Missione di speranza e carità”). Per ristrutturare i suoi centri d’accoglienza ha messo a lavorare come volontari persone e imprese di tutta Italia. S’è procurato dei pulmini, a bordo dei quali manda quotidianamente i suoi equipaggi per le strade di Palermo a dar da mangiare ai derelitti e a convincerli a trasferirsi nei suoi villaggi. È un vortice di attività, Biagio Conte. «Ma non siamo noi che abbiamo fatto tutto questo. È Gesù che fa. Tutto qui va avanti solo grazie a donazioni e volontariato».

Viva Cuffaro o abbasso la Regione? Il dilemma catanese
Il polo imprenditoriale della regione è Catania. E non solo per il miracolo St Microelectronics, ma anche per il brulichìo di avventure di piccoli e medi imprenditori che da anni lottano per la valorizzazione della Sicilia orientale. Ebbene, all’ombra dell’Etna, all’ombra di un’economia tutto sommato fiorente, si va diffondendo una certa apprensione rispetto alla politica.
Su un piatto della bilancia c’è l’amministrazione regionale di Salvatore Cuffaro che continua a mettere trofei in teca. Primo fra tutti, quello di aver quasi cancellato l’immagine di una Sicilia parassitaria e sprecona: nel 2003, per la prima volta, la Regione ha raggiunto il tetto di spesa previsto dal piano europeo Agenda 2000, meritando un premio di 100 milioni di euro «per aver fatto avanzare il sistema», cioè per aver favorito una precisa strutturazione dei progetti da parte delle aziende in cerca di finanziamenti Ue e fatto rispettare i parametri stabiliti in settori strategici, dalla burocrazia, alla rete idrica, alle infrastrutture. Sull’altro piatto a Catania c’è il “centralismo alla palermitana” con risorse che appaiono e poi scompaiono, montagne di pratiche che stagionano nei cassetti di Palazzo d’Orléans, sede della Regione autonoma, facilitazioni e clientele che violano ogni principio di trasparenza…

Giocare a golf sull’Etna
Certo è che la gente che ha voglia di fare a Catania non manca, anzi, comincia ad organizzarsi. Come il gruppo degli imprenditori che, facendo del Parco dell’Etna il proprio marchio di qualità, vorrebbero rilanciare il turismo. «Il problema è che le risorse vengono disperse. Si finanziano a pioggia centinaia di attività e nessuna si rafforza al punto di creare un indotto. Prendi la zona di Taormina: laggiù c’è un’infinità di posti letto, perché la Regione continua ad incentivare la costruzione di alberghi. Ma il dramma è che non si sa come riempirli! Non servono le agevolazioni statali perché la gente pronta a mettere mano al portafoglio qui già c’è. Servono invece decisioni e direttive chiare per potenziare le infrastrutture intorno alle zone in cui si vogliono concentrare gli investimenti, serve una razionalizzazione dell’offerta turistica a livello provinciale e regionale». Chi parla è Giuseppe Leonardi, che nell’isola ha importato i campi da golf. Da golf? Sì, da golf, alle pendici dell’Etna. È siciliano, Leonardi, ma veste come un duca di Wellington. Delle vicende di cui è stato protagonista il suo “Pìcciolo Golf Club” ormai parla con bonomia e ironia, ma solo perché oggi, a Castiglione di Sicilia, si può finalmente giocare sui prati inglesi con l’Etna che fuma sullo sfondo, dopo dieci anni di battaglie: «Ho presentato il progetto nel 1986, quando avevo ancora i capelli. I primi quattro anni mi sono serviti per spiegarlo, il progetto». Oggi «l’Unione Europea si è rivelata il migliore alleato degli imprenditori, perché ha fissato dei parametri e dei termini entro cui i soldi devono essere spesi, paletti che hanno dato fastidio alla pigrizia dei burocrati». Nel frattempo però sono passati treni che i catanesi riacciufferanno a fatica. «Spagna, Portogallo, Costa Azzurra, perfino Tunisia e Marocco hanno capito prima di noi che vantaggio può portare un circuito completo di campi da golf». Ciuff, ciuff…

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.