
Quel piccolo altare da campo ammaccato nel museo dell’umanità ingoiata dalla guerra
È una scatola di legno di 50 centimetri per 30. Sopra c’è scritto “Gran Dio, benedici l’Italia”. Dentro, un piccolo altare da campo. Sta nel Museo militare sopra il Passo Falzarego, tra le montagne dove la Grande Guerra fece strage di soldati italiani e austriaci.
Sono passati quasi cent’anni. Al Passo, i pullman scaricano schiere di turisti vocianti. Dentro, il vecchio fortino custodisce le povere cose che, da quel lontano massacro, sono rimaste. Sono grigi della polvere del tempo i mantelli degli alpini, e arrugginite le croci che portavano sul petto, come le medaglie degli eroi. E poi proiettili da artiglieria pesante, sezionati a mostrare la loro potenza di morte, e grappoli di bombe a mano, panciute, lucenti. Le maschere antigas con gli occhi di vetro e il filtro nero sembrano volti di morti. E ancora fucili e baionette e mazze ferrate, per il colpo di grazia ai nemici paralizzati dai gas. (E ognuno era un figlio, ognuno, a casa, aveva chi lo aspettava). È, il fortino di pietra sotto le Tofane, un nido oscuro in cui la violenza della carneficina ha depositato, come detriti di una livida piena, ciò che è rimasto.
Ma c’è quel piccolo altare da campo. Sembra di ottone, con qualche ombra di ammaccatura. La scatola si apre con due ante. Dentro, due mozziconi di candela, e in mezzo un Crocefisso. L’altare degli alpini sulle Tofane è tutto qui.
Eppure, in mezzo a quell’arsenale ferrigno, alle lettere a casa dei ragazzi che il giorno dopo sarebbero andati all’attacco, il piccolo altare è la sola cosa che sfugge alla cappa di morte. Perché serve per nascondersi al nemico il grigioverde delle divise, per colpirlo i cannoni, per impartire ordini di assalto le cassette del telegrafo. E i mazzi di tarocchi ingialliti servivano a non pensare, per un’ora. In questa organizzata macchina di morte l’altarino spalancato e il Cristo con le braccia aperte sulla croce sono la memoria di un altro destino. Non solo carne da cannone e uomini da riportare a valle mutilati, o folli; o congelati e sepolti nella neve, la bocca spalancata nell’ultimo grido. Tutto, di ciò che resta della guerra tra le Tofane, sembra testimoniare di un’umanità ingoiata dal nulla. A contraddire l’annichilimento, le ante dell’altare da campo, spalancate come la porta della tua casa.
Notti di Pasqua, notti di Natale nelle trincee, e quegli occhi di ragazzi fissi sul Cristo. Potesse, la teca di metallo opaco, riflettere ancora quegli occhi di uomini chiamati, il mattino dopo, nella neve e nel ghiaccio, ad andare. Forse è per quei mille sguardi ricevuti che dall’altare grande quanto un giocattolo non sai staccare gli occhi. Quanto più maestosi i cannoni e gli obici, e le trombe dorate che chiamavano all’attacco. Ma l’ultima preghiera di quegli sconosciuti ragazzi guardava qui. 50 centimetri di altare, e Cristo dentro: segno splendente, fra i detriti di una piena di morte.
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