Quando Chesterton spiegò agli inglesi che combattere la religiosa Irlanda era come «un tentativo di abolire l’erba»

Di Enrico Reggiani
12 Dicembre 2013
Il grande polemista scrisse un «registro di cose reali» viste sull'isola per rendere omaggio a una comunità «che potrebbe essere quasi detta una comunione»

Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Nella seconda metà dell’Ottocento, “impressione” non è una parola qualunque, un termine tra i tanti che l’esperienza della nascente psicologia moderna consegna ai cultori di un’interiorità soggettiva sempre più autoreferenziale e svincolata dalle risorse analogiche disponibili alla cultura romantica. “Impressione” presuppone un nuovo approccio antropologico, un inedito atteggiamento culturale, una rinnovata concezione estetica. In pittura, ad esempio, gli arcinoti impressionisti convertono le più recenti innovazioni nell’ambito dei materiali pittorici in una spiccata attenzione per le più fuggevoli percezioni della luce, dell’atmosfera e del movimento. Le loro “impressioni” incarnano la transitorietà di un momento, celebrano l’affermazione dell’approccio “a prima vista”, sanciscono il tramonto dell’elaborazione del dettaglio. Anch’esse sono, forse, a moment’s monument, un monumento al momento, come Dante Gabriel Rossetti ebbe a dire della forma poetica del sonetto, che impiegò nel suo celeberrimo canzoniere A House of Life (1847-1881).

Fin dagli anni giovanili della Slade School of Art, Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) dimostrò un atteggiamento assai ostile nei confronti dell’impressionismo: come ricorda Aidan Nichols in G. K. Chesterton, Theologian (2009), egli lo considerava un equivalente pittorico dell’epifenomenalismo e un sintomo di una decadenza culturale ed epistemologica. Lo attaccò ripetutamente e sagacemente nelle sue opere: in The Man Who Was Thursday (1908), lo definì «un altro nome per quel finale scetticismo che non è in grado di trovare alcun fondamento per l’universo»; nel suo saggio sul grande poeta inglese William Blake (1910) lo demolì in quanto «sostituzione della figura con l’atmosfera, sacrificio della forma a vantaggio della sfumatura, terra nebulosa e visionaria del semplice colorista».

Se, dunque, Chesterton non poteva accettare l’idea che le impressioni immediate gestissero il mondo intero (espressa da Basil in The Club of Queer Trades, 1905); se, per Quinbus Flestrin, l’espressione artistica e culturale fondata sulle impressioni ha i tratti costitutivi di cui si è detto sopra; se, come Chesterton scrisse nel saggio su Charles Dickens (1906), persino «la nostra moderna attrazione per le short stories non è un accidente formale, [ma] è il segno di un reale senso di fugacità e di fragilità [che] significa che l’esistenza è solo un’impressione e, forse, solo un’illusione», come vanno intese le Impressioni irlandesi che Chesterton pubblicò nel 1919 e delle quali è uscita una pregevole edizione italiana (Milano, Edizioni Medusa, 2013, pagine 144, euro 16)? A leggere attentamente tra le righe delle Irish impressions è lo stesso “principe del paradosso” a fornire una risposta a tale interrogativo: le sue Impressioni irlandesi non vanno intese in senso impressionistico o ideologizzato, ma come «un registro delle cose reali», che si propone a «qualsiasi osservatore reale» e che «è spesso più utile della premessa delle teorie da lui elaborate prima di aver visto tutte le realtà».

Quando Chesterton le pubblica nel 1919 dopo un soggiorno a Dublino nell’anno precedente che lo vede impegnato a convincere l’opinione pubblica irlandese a non simpatizzare con il nemico germanico per danneggiare la perfida Albione, sono proprio “le cose reali” d’Irlanda a interessarlo, al punto da fargli affermare che «la storia irlandese è una cosa, e quella che chiamiamo la questione irlandese, tutt’altra; e in senso puramente pratico, la cosa migliore che uno straniero può fare è dimenticare la questione irlandese e guardare agli irlandesi».

Per Chesterton, proprio “rendere nuove le cose” è l’«unica scusa valida per fare letteratura», ben lungi dalla «principale iattura del giornalismo» che «è renderle vecchie». Fu tale consapevolezza a guidarlo nella stesura delle sue Impressioni irlandesi e nella scelta del loro definitivo orientamento testuale e comunicativo, come rivela il passo seguente: «Sfogliando gli appunti di una visita così breve, soffrendo di tutta la stolida fretta del mio mestiere giornalistico, sono stato in dubbio tra seguire un ordine logico, oppure cronologico, degli eventi. Ma ho deciso in favore della logica, della luce forte che rivela l’immagine, e sotto la quale fermamente credo che ogni altra cosa debba essere vista».

Nelle Impressioni irlandesi, la luce forte della logica chestertoniana (matrice creativa per una raccolta di impressioni solo apparentemente paradossale, in realtà umanamente integrale) illumina un’Irlanda non «debole, irrealistica, arretrata», soprattutto a causa della sua forte religiosità (Orthodoxy, 1908): al contrario, quella luce rivela un’isola di smeraldo che non può essere governata dagli inglesi perché «i mercanti non possono governare i contadini» e che, di fronte alla «minaccia bolscevica» o al «mero terrore del capitalismo», saprebbe offrire all’Europa moderna l’esempio della resistenza «più onesta, e probabilmente la più importante».

In entrambi i casi, secondo la lettura di Chesterton, l’esperienza irlandese di comunità, «che potrebbe essere quasi detta una comunione» sovrasta il modello della «combinazione inglese, (…) per sua natura più debole e a rischio scisma»: ogni attacco a essa «è come un tentativo di abolire l’erba; che non solo ne è il simbolo nell’antico canto nazionale, ma ne è il vero, autentico simbolo in ogni più recente storia filosofica; un simbolo della sua uguaglianza, della sua ubiquità, della sua molteplicità, della sua potente capacità di tornare. Combattere contro l’erba è combattere contro Dio; possiamo solo gestire così male la nostra città e i nostri cittadini, che l’erba crescerà nelle nostre strade. E anche così saranno le strade a morire; e l’erba vivrà ancora».

L’erba delle Impressioni irlandesi di Chesterton cresce sulla solida «radice della realtà» (il titolo della geniale seconda impressione) nel «senso concreto del miracolo dell’Irlanda moderna», in cui «ogni parola in irlandese è una parola domestica», e pullula di protagonisti non sempre prevedibili: su tutti, William Butler Yeats, «George Russell, il mirabile A. E.» e «il grande Parnell, un possidente che aveva molte delle qualità di un contadino».

Per essere un «rude abbozzo» in cui Chesterton non cerca «di dire agli irlandesi ciò che sanno già, bensì di dire agli inglesi qualcuna della grandi e semplici cose che ancora non sanno», le sue Irish impressions s’impongono come uno dei più accorati omaggi a quell’isola che «non è un’illusione» e i cui uomini «un giorno vennero avanti, non con le torce dei conquistatori o dei distruttori, ma come missionari nella vera mezzanotte dei secoli bui; come una moltitudine di candele in movimento, che erano la luce del mondo».

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