Il caso di Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, continua ad infiammare gli animi. Come noto, la condanna a 14 mesi di reclusione per diffamazione aggravata è relativa a un articolo pubblicato nel 2007 a firma Dreyfus. Lo pseudonimo appartiene a Renato Farina, già radiato dall’Ordine dei Giornalisti, che ha ammesso la sua responsabilità attirando su di sé i veleni dei colleghi: prima Vittorio Feltri, che dal salotto di Porta a Porta gli ha dato del «vigliacco», poi Enrico Mentana che ha cinguettato su Twitter «ora è troppo tardi, infame», concetto espresso da molti altri seppur con toni più velati. Unica voce fuori dal coro è stata la firma del Corriere della Sera Antonio Polito, che ha cercato di gettare acqua sul fuoco ricordando che «anche se Farina si fosse fatto avanti prima, il reato di omesso controllo per Sallusti sarebbe rimasto».
Perché ha preso le parti di Renato Farina?
Perché non mi sembra essenziale l’identità dello scrivente, ai fini della storia che abbiamo di fronte. Inoltre ritengo che Sallusti fosse perfettamente a conoscenza della situazione, ragion per cui non capisco l’irritazione generale, né il tentativo di alcuni di far passare Farina per vigliacco e Sallusti per agnello sacrificale.
Perché questo caso sta scatenando reazioni tanto emotive?
In parte perché le prassi dei giornali, come quella per cui il direttore si assume tutta la responsabilità degli articoli che vengono pubblicati in forma anonima, sono sconosciute ai più. Io stesso sono stato querelato per articoli pubblicati senza firma, in accordo col direttore. Si fa proprio per proteggere il giornalista in caso di querela: la responsabilità è tutta del direttore.
In molti hanno sollevato il problema dell’omesso controllo.
È facile prendersela con Farina, ma invoco un po’ di onestà intellettuale: se ci fosse stato un co-imputato non sarebbe cambiato nulla. Anzi, teoricamente la scelta di non rivelare “tutto subito”, da parte di Farina, può essere letta come un tentativo di proteggere Sallusti da un’eventuale sanzione da parte dell’Ordine dei Giornalisti. Perché far scrivere un giornalista non iscritto viola le regole di deontologia.
L’articolo di Farina si basava però, come ha ammesso lui stesso, su circostanze non vere.
Di certo non si più imbastire una polemica su una circostanza non vera. Ma questo rientra nell’ambito della critica professionale. Io sono dell’idea che si debba depenalizzare il reato di diffamazione, e che sia prevista una pena esclusivamente pecuniaria. È inaccettabile prospettare il carcere.
Al di là delle polemiche interne, qual è il vero punto della questione?
Il punto è questo: a quanto pare in Italia, per lo stesso reato, in primo grado si viene condannati a un’ammenda di cinquemila euro. In secondo grado, la condanna è di 14 mesi di carcere. È assurdo.
Enzo Raisi, deputato di Futuro e Libertà, sulla vicenda si è espresso così: «Sallusti si faccia pure il suo mese e mezzo di galera così potrà scrivere del problema delle carceri in prima persona».
Questo è volgare manettarismo. La gente che augura il carcere ad altri mi ripugna un po’. Vale per chiunque, non solo per Sallusti. Aggiungo che l’Italia è un paese incivile, perché non ha carceri, ma galere medioevali. Quindi questo sarcasmo rivoltante è doppiamente fuori luogo.
Anche Orfeo Donadini, cronista del quotidiano Alto Adige, e il suo direttore Tiziano Marson sono stato condannati in primo grado a quattro mesi di reclusione, per aver usato come fonte un documento riservato. Se il protagonista di questa vicenda non fosse stato Sallusti, il dibattito sarebbe stato più sereno?
Certamente sì. D’altra parte, se non si fosse trattato di Sallusti, la pena non sarebbe stata di quattordici mesi di reclusione. Questa è chiaramente una sentenza esemplare. E le sentenze esemplari si applicano a personaggi esemplari.