Lettere dalla fine del mondo
Per non vivere nella paura aggrappiamoci all’ancora della fede
Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Lentamente il mondo sta superando la crisi provocata dalla pandemia del coronavirus; ma da parte dei diversi mezzi di comunicazione si avverte che adesso potrebbe arrivarne una ancora peggiore, quella che potrebbe essere denominata una “pandemia economica”. Questo ovviamente genera non solo un’incertezza rispetto al futuro, ma nuovamente risveglia la paura nella gente. Come se non bastassero i problemi, tutta la sofferenza e il dolore dopo tante perdite che abbiamo attraversato come umanità, sorge adesso questa nuova minaccia davanti alla quale vogliamo cercare un rifugio per non vivere disperati.
La malattia causata da un nemico invisibile ci ha reso evidente che siamo fragili e piccoli; nonostante tutte le scoperte scientifiche e tecnologiche che ci circondano nel mondo moderno, non si è potuta evitare la tragedia in molte parti del mondo.
Dunque la domanda che sorge immediatamente è: e adesso? La modernità si mostra incapace di offrire una risposta esaustiva, che contempli tutti i fattori in gioco. Di fatto la concezione individualistica risolve il problema eliminando uno dei poli di tensione. E una soluzione che debba eliminare uno dei fattori in gioco semplicemente non è una vera soluzione.
Il fatto di non vivere soli, di trovarci sempre dentro una comunità, ci obbliga a decidere continuamente come affrontare il paradosso tra il proprio bene e il bene dell’altro, la tensione tra l’“io” e la comunità. Ma in questo caso ciò che la realtà ci indica è che dobbiamo andare avanti, senza ridurre il dramma né le circostanze, guardando al futuro certamente con speranza, che non è la stessa cosa che possedere un ottimismo meramente umano, come ci ricorda papa Francesco: «Dio non delude la speranza né può tradire se stesso. Dio è tutto promessa». Avere speranza, aggiunge, è esattamente questo: «Essere in tensione verso questa rivelazione, verso questa gioia che riempirà la nostra bocca di sorriso». Per San Paolo – ha detto il Papa – la speranza non è un ottimismo, «è qualcosa di più», «è qualcosa di diverso». I primi cristiani «la dipingevano come un’ancora. La speranza è un’ancora fissata nella riva» dell’Aldilà. E la nostra vita è esattamente un camminare afferrati a questa ancora (omelia a Santa Marta, 29 ottobre 2013).
Dove sorge la speranza
Da dove sorge questa speranza? Nasce dalla fede. Infatti alla fine la questione è sempre la fede: se prevale questa Presenza come avvenimento nella vita oppure no. È una questione di fede, perché per noi cristiani la fede è qualcosa che ha a che fare con tutto, non qualcosa che si riferisce solo a qualche aspetto particolare della vita. La fede è qualcosa che ha a che fare con tutto e in questo modo la Sua grazia ci raggiunge in ogni istante attraverso le circostanze della vita.
L’amore che Cristo ha per ognuno di noi ha la forza per trasformare la realtà, perché fa crollare i muri dell’egoismo e riempie la distanza che ci tiene lontani gli uni dagli altri. In un mondo dove l’individualismo e la competizione per raggiungere il successo prevalgono, vivere con questa posizione ci dà la possibilità di scoprire il cristianesimo come una realtà tanto attrattiva quanto desiderabile. Cristo non è un ornamento a una soluzione che bisogna cercare altrove: è la chiave stessa della soluzione. Solo Cristo come avvenimento presente nella vita delle persone è capace di liberare l’uomo dalla sua riduzione e fargli desiderare e sperimentare quella pienezza per la quale è fatto.
Foto Ansa
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