Conservare non significa andare all’indietro ma innovare senza forzare la realtà

Di Giovanni Maddalena
03 Gennaio 2022
Realismo, cultura del lavoro e idea di popolo. Spunti per il dibattito sul ruolo di un partito conservatore in Italia. Iniziamo dal porci le domande giuste
Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, con il ct della Nazionale di calcio, Roberto Mancini, sul palco di Atreju lo scorso dicembre (foto Ansa)

Sulla difficoltà e sulla necessità di un pensiero “conservatore” in Italia sono stati istruttivi i precedenti interventi su Tempi. Il problema, in effetti, è di carattere culturale e va anche al di là dei confini dell’Italia. Un ricercatore di un importante centro di ricerca europeo, interrogato sulla natura dell’essere conservatori, aveva risposto: «I progressisti hanno delle idee e spingono in una certa direzione, noi conservatori cerchiamo di rallentarli». Temo che questa sia una franca ammissione di ciò che spesso accade: i conservatori, in Europa, ma anche negli Stati Uniti – se si guarda per esempio alla versione della famiglia Bush –, sono culturalmente a rimorchio delle idee progressiste. Mancando di originalità, non hanno una diversa direzione da proporre.

Conservare il realismo

Carlo Visconti aveva giustamente sottolineato che i conservatori dovrebbero innanzi tutto rispondere alla domanda «che cosa vogliamo conservare?». Qui, per cominciare, vorrei proporre una triplice risposta dal punto di vista culturale.

In primo luogo, i conservatori dovrebbero conservare il cosiddetto realismo o senso comune o, manzoniamente, il buon senso contro il nominalismo. Dovrebbero cioè difendere un uso della ragione e delle parole che corrisponda alla realtà, bella o brutta che sia, opponendosi all’idea che la realtà possa essere creata e governata da immagini e parole arbitrariamente nate da pensieri ideologici. Nella pratica attuale, il pensiero conservatore si dovrebbe opporre al nominalismo del politicamente corretto 2.0, della cultura woke e cancel in nome di un rispetto effettivo ed efficace della storia e delle persone. Ma, per lo stesso motivo, si opponeva e si dovrebbe opporre a tutte le ideologie di destra e di sinistra che vogliono inventare un uomo nuovo, sogno violento culla di tutti i totalitarismi, come ben spiegato da Hannah Arendt e Vasilij Grossman.

La cultura del lavoro e quella del consumo

In secondo luogo, i conservatori dovrebbero conservare la cultura del lavoro e dei lavoratori contro la cultura dell’uomo ridefinito solo come consumatore. L’uomo si realizza lavorando e la difesa del gesto lavorativo, a tutti i livelli, si oppone all’idea che ciò che conti sia solo avere dei soldi per partecipare del consumismo. Che il lavoratore stia diventando solo un consumatore è uno degli esiti della rivoluzione digitale in corso, ben illustrato dal filosofo Maurizio Ferraris, che lo pensa inevitabile e positivo, e dal saggista Riccardo Ruggeri, che lo pensa inevitabile e negativo. Si va verso una società dove si lavora poco, perché operano le macchine, e dove tutti devono avere invece qualche soldo per consumare a basso costo e bassa qualità.

Come si sa, in tutto il mondo la cultura liberal progressista ha abbandonato la difesa del lavoro ed è questo uno dei motivi per cui si è spostata la mappa sociale del voto: i progressisti vincono dove le persone guadagnano a sufficienza per poter partecipare con soddisfazione alla cultura consumista, mentre quelli che vorrebbero migliorare la propria posizione con il lavoro non ci riescono per mancanza di opportunità e votano chiunque altro non partecipi del potere costituito. Che la cultura del lavoro, con i suoi correlati di merito e di ascensore sociale, non sia inevitabilmente finita ma debba essere riformulata nelle nuove condizioni dovrebbe essere la scommessa di una cultura conservatrice originale.

Conservare l’idea di popolo

In terzo luogo, i conservatori dovrebbero conservare l’idea di popolo contro l’individualismo narcisista delle nostre società occidentali. L’idea che la persona si realizzi soprattutto attraverso le sue relazioni sociali e che il rafforzare queste relazioni sia più importante dell’empowerment del singolo individuo avrebbe realizzazioni politiche pratiche molto estese. Vorrebbe dire favorire i cosiddetti corpi intermedi – a cominciare dalla famiglia – invece di parlare a un cittadino sempre più solitario e suscettibile, isolato e concentrato ossessivamente sui propri diritti individuali. L’identità di popolo non è data né dal luogo in cui si nasce né dal sangue nelle vene ma dalle concezioni condivise. Sebbene vaghe, queste ci sono ancora e sarebbe compito di un partito conservatore fare lo sforzo culturale di capire quali siano e come farle emergere, soprattutto nei percorsi scolastici e formativi.

Sono solo idee iniziali a cui forse altri lettori e autori di Tempi potrebbero contribuire, ma dovrebbero comunque segnalare che conservare non significa andare all’indietro ma innovare senza forzare la realtà, cambiare senza buttare, riformare senza barare. È arrivata l’ora di questo salto culturale in Occidente? Non ne sono affatto sicuro ma è già bello porsi la domanda.

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