Conservare non significa andare all’indietro ma innovare senza forzare la realtà
Sulla difficoltà e sulla necessità di un pensiero “conservatore” in Italia sono stati istruttivi i precedenti interventi su Tempi. Il problema, in effetti, è di carattere culturale e va anche al di là dei confini dell’Italia. Un ricercatore di un importante centro di ricerca europeo, interrogato sulla natura dell’essere conservatori, aveva risposto: «I progressisti hanno delle idee e spingono in una certa direzione, noi conservatori cerchiamo di rallentarli». Temo che questa sia una franca ammissione di ciò che spesso accade: i conservatori, in Europa, ma anche negli Stati Uniti – se si guarda per esempio alla versione della famiglia Bush –, sono culturalmente a rimorchio delle idee progressiste. Mancando di originalità, non hanno una diversa direzione da proporre.
Conservare il realismo
Carlo Visconti aveva giustamente sottolineato che i conservatori dovrebbero innanzi tutto rispondere alla domanda «che cosa vogliamo conservare?». Qui, per cominciare, vorrei proporre una triplice risposta dal punto di vista culturale.
In primo luogo, i conservatori dovrebbero conservare il cosiddetto realismo o senso comune o, manzoniamente, il buon senso contro il nominalismo. Dovrebbero cioè difendere un uso della ragione e delle parole che corrisponda alla realtà, bella o brutta che sia, opponendosi all’idea che la realtà possa essere creata e governata da immagini e parole arbitrariamente nate da pensieri ideologici. Nella pratica attuale, il pensiero conservatore si dovrebbe opporre al nominalismo del politicamente corretto 2.0, della cultura woke e cancel in nome di un rispetto effettivo ed efficace della storia e delle persone. Ma, per lo stesso motivo, si opponeva e si dovrebbe opporre a tutte le ideologie di destra e di sinistra che vogliono inventare un uomo nuovo, sogno violento culla di tutti i totalitarismi, come ben spiegato da Hannah Arendt e Vasilij Grossman.
La cultura del lavoro e quella del consumo
In secondo luogo, i conservatori dovrebbero conservare la cultura del lavoro e dei lavoratori contro la cultura dell’uomo ridefinito solo come consumatore. L’uomo si realizza lavorando e la difesa del gesto lavorativo, a tutti i livelli, si oppone all’idea che ciò che conti sia solo avere dei soldi per partecipare del consumismo. Che il lavoratore stia diventando solo un consumatore è uno degli esiti della rivoluzione digitale in corso, ben illustrato dal filosofo Maurizio Ferraris, che lo pensa inevitabile e positivo, e dal saggista Riccardo Ruggeri, che lo pensa inevitabile e negativo. Si va verso una società dove si lavora poco, perché operano le macchine, e dove tutti devono avere invece qualche soldo per consumare a basso costo e bassa qualità.
Come si sa, in tutto il mondo la cultura liberal progressista ha abbandonato la difesa del lavoro ed è questo uno dei motivi per cui si è spostata la mappa sociale del voto: i progressisti vincono dove le persone guadagnano a sufficienza per poter partecipare con soddisfazione alla cultura consumista, mentre quelli che vorrebbero migliorare la propria posizione con il lavoro non ci riescono per mancanza di opportunità e votano chiunque altro non partecipi del potere costituito. Che la cultura del lavoro, con i suoi correlati di merito e di ascensore sociale, non sia inevitabilmente finita ma debba essere riformulata nelle nuove condizioni dovrebbe essere la scommessa di una cultura conservatrice originale.
Conservare l’idea di popolo
In terzo luogo, i conservatori dovrebbero conservare l’idea di popolo contro l’individualismo narcisista delle nostre società occidentali. L’idea che la persona si realizzi soprattutto attraverso le sue relazioni sociali e che il rafforzare queste relazioni sia più importante dell’empowerment del singolo individuo avrebbe realizzazioni politiche pratiche molto estese. Vorrebbe dire favorire i cosiddetti corpi intermedi – a cominciare dalla famiglia – invece di parlare a un cittadino sempre più solitario e suscettibile, isolato e concentrato ossessivamente sui propri diritti individuali. L’identità di popolo non è data né dal luogo in cui si nasce né dal sangue nelle vene ma dalle concezioni condivise. Sebbene vaghe, queste ci sono ancora e sarebbe compito di un partito conservatore fare lo sforzo culturale di capire quali siano e come farle emergere, soprattutto nei percorsi scolastici e formativi.
Sono solo idee iniziali a cui forse altri lettori e autori di Tempi potrebbero contribuire, ma dovrebbero comunque segnalare che conservare non significa andare all’indietro ma innovare senza forzare la realtà, cambiare senza buttare, riformare senza barare. È arrivata l’ora di questo salto culturale in Occidente? Non ne sono affatto sicuro ma è già bello porsi la domanda.
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