«Paura del virus? Non ho tempo per pensarci»

Di Caterina Giojelli
14 Aprile 2020
Una casa, nove "ripetenti", il carcere, la Croce come "penultimo atto", la morte di Andrea. La quarantena fra i diseredati di don Gino Rigoldi
epa05331167 A photograph made available on 26 May 2016 shows inmates who are alleged members of one of the main criminal factions in Rio de Janeiro serving time in the maximum security prison of Laercio da Costa Pellegrino, also known as Bangu 1, in which convicted persons serve periods of isolation for disciplinary reasons in Rio de Janeiro, Brazil, 13 April 2016. The deaths of 18 inmates in prison riots in northeastern Brazil is the latest chapter in the dark history of the country's penitentiary system, one marked by violence, overcrowding and the inability of authorities to deal with the problem. Riots in five prisons in the state of Ceara last week took the lives of 18 inmates, most of them still unidentified because their bodies were burned beyond recognition in the fires that were set or broke out during the prisoner uprisings. Overcrowding is one of the factors that triggered the majority of the riots in a broken prison system, where 622,200 inmates are being housed in facilities designed for only about 372,000, according to the latest Justice Ministry report. EPA/Antonio Lacerda

I ragazzi brutti, sporchi, cattivi, diseredati, tossici, fuori e dietro le sbarre sono sempre stati il suo chiodo. E anche oggi che ha ottant’anni e tutti gli chiedono se ha paura – di vivere “ai domiciliari” con loro, di questo virus che non fa prigionieri tra quelli della sua età – don Gino Rigoldi risponde da innamorato della Croce che ha da occuparsi degli affari del Padre suo: «Paura, figuriamoci. Ho già il mio bel daffare con i ragazzi qui, far loro da madre, padre, prete e nonno che insiste con le raccomandazioni e il rispetto delle misure di sicurezza con questi che scalpitano tutto il giorno. Non ho tempo per pensare “oddio, sono a rischio”. Vorrei dirle che prego Dio di non ammalarmi, ma in realtà ho un sacco di altre cose da chiedergli».

DIO, IL DON E NOVE “RIPETENTI”

Il più instancabile dei preti di strada d’Italia, da 48 anni cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, sta passando la settimana santa recluso fra quelli che chiama “ripetenti”, nove ragazzi – ultimi di centinaia che usciti dal carcere sono passati alla cascina dove vive, centinaia di trentamila da lui incontrati, accuditi, adottati, educati in mezzo secolo di attività – «un po’ più grandi dei sedicenni del Beccaria. Hanno venti, ventuno, ventidue anni, c’è chi è ai domiciliari, chi ha vincoli d’orario, chi è musulmano e chi è cristiano. Cinque i musulmani e quattro i cristiani, ad essere precisi. Più io che innesco discussioni».

L’ULTIMO ATTO, LA RESURREZIONE

Questa quaresima, vissuta dall’Italia nel terrore e nel tentativo di ripararsi dall’altro, don Rigoldi l’ha vissuta come sempre, immerso fra altri e annunciando la vittoria di un Altro, «vi pare che li lasciavo soli in piena pandemia? E di che si parla in piena pandemia se non del dramma della vita e della morte?». Prendiamo la Domenica delle Palme, «mi dicono, “certo che quel Cristo in Croce così intorcigliato, inchiodato, sacrosanta ma che brutta immagine eh?”. Ma certo che è conciato così! È il preludio di tutto: ecco fino a che punto deve conciarsi il bene per fare esplodere la gloria della resurrezione. Io dico sempre loro che la Croce è penultimo atto, mica è un fallimento: Cristo che muore come un delinquente è la certezza che ci ha voluto bene fino in fondo, fino a soffrire le pene dell’inferno, fino alla vittoria di Dio, che non consente al male di trionfare. E allora c’è l’ultimo atto: la resurrezione».

CARTAPESTA ED EVIDENZA

Tra un chilo di pane e l’altro i ragazzi concordano sull’essere fatti per l’ultimo atto, mica per le storie a metà, «a quel punto è tutto un “evviva”, poi l’euforia scema un po’ e per il santo triduo ora mi devo occupare bene dei ragazzi cristiani». Qualcuno lo bacchetta quando chiama Cristo eroe, «ma io lo chiamo eroe lo stesso, il primo dei risorti», qualcun altro fa il san Tommaso, come si conviene a quell’età, gli chiede «mbé tu risorto l’hai mai visto?», e a don Rigoldi tocca tuonare che tra vedere ed evidenza passa un mondo: «È evidente che il mondo non è fatto di cartapesta e nessun creatore sprecherebbe tanta bellezza, tanto bene e neppure tanto male – giacché il male è l’espressione della libertà che ci fa creature e non fantocci – per nulla».

L’INFERNO, “NON ESSERE DI NESSUNO”

Di questo si parla tra una spesa e un tg che snocciola i numeri delle vittime del coronavirus, di vita eterna, cioè di relazione, legame con un altro, «questi non hanno il problema di sapere come sarà il paradiso ma come saranno loro in paradiso: innamorati, santo cielo, ma sarete stati amati da qualcuno o vi sarete innamorati da qualcuno tanto da presagire quella felicità quel desiderio che chi ci ama o chi amiamo sia per sempre». E di dannazione eterna, «cioè dell’inferno, la solitudine, l’inferno è non essere di nessuno», e si capisce davvero tutto il senso della comunità vivente come riflesso ed evidenza del paradiso sulla terra a cui don Gino Rigoldi ha dedicato tutta la vita e che continua a tenere salda ora che un virus ci vorrebbe tutti dimentichi e terrorizzati dell’altro.

LA VIA CRUCIS INFINITA

Quest’anno poi, il prodigioso duello tra la vita e la morte che segna la Via Crucis del Venerdì Santo sul sagrato di San Pietro verrà accompagnato, come richiesto da papa Francesco, dalle meditazioni scritte da cinque detenuti (più una famiglia vittima di omicidio, la figlia di un ergastolano, un’educatrice, un magistrato di sorveglianza, la madre di un carcerato, una catechista, un sacerdote accusato ingiustamente, un frate volontario, un poliziotto) legati alla Cappellania della Casa di Reclusione “Due Palazzi” di Padova: «Un posto – spiega don Rigoldi – dove una comunità educante è attiva. Ricordiamocelo sempre, il carcere non è il luogo della povertà, ma della povertà delle povertà umane, decine di migliaia di persone sono recluse in prigioni sovraffollate, violente, dove i suicidi non si contano più e mancano i direttori, educatori e volontari. Quello che non manca invece è la solitudine, la disperazione di non essere di nessuno, l’inferno appunto. Il penultimo atto, qui, è la fine».

L’EDUCAZIONE CONTRO IL SOVRAFFOLLAMENTO

Don Rigoldi prende a esempio il carcere di Bollate, «dove abbiamo un direttore e un buon sistema di educatori il tasso di recidiva è inferiore al 20 per cento. Là dove tutto questo non esiste il tasso è del 78-80 per cento. E volete tenere testa al coronavirus? Il sovraffollamento si combatte se si educa, se c’è una direzione, un comando, agenti: dimezzeremmo i detenuti. Bisogna farli uscire per il coronavirus? Meglio fuori che dentro, ma un ragionamento su come sostenere il loro reinserimento e sostentamento va fatto altrimenti siamo punto a capo».

ANDREA, CHE NON ERA FATTO PER IL CARCERE

Quanto ai ragazzi, dopo aver fondato case di accoglienza, centri per il reinserimento sociale, la Comunità Nuova, don Rigoldi ha appena dato vita a qualcosa che fino ad ora non esisteva in Lombardia, la prima comunità terapeutica per adolescenti provenienti dal circuito penitenziario a rischio di autolesionismo ed ex detenuti con problemi psichiatrici e di tossicodipendenza. Non è nata per caso, è nata da un grande e recentissimo dolore. «Aveva una famiglia disastrata, sofferenza psichica, entrava e usciva da penitenziari e ricoveri, aveva 18 anni quando ha ricominciato a farsi qualche buco. Presa un’infezione, è scappato dall’ospedale. Lo abbiamo trovato già incosciente. Ha vissuto settimane tra rianimazione e terapia intensiva, prima a Cinisello e poi al San Gerardo di Monza. Alla fine abbiamo dovuto lasciarlo andare. Andrea è morto così, tra le lacrime dei medici e del primario impotenti davanti ai danni irreversibili del suo cervello. E tra le nostre, le mie. Il posto di Andrea non era in carcere, e nemmeno in una comunità educativa. Aveva bisogno di cure e competenza, gli adolescenti psichiatrici con tossicodipendenze hanno bisogno di non essere lasciati soli». La sofferenza non è mai l’ultimo atto.

Foto Ansa

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