Patrimoniale di Amato si farà: è più facile spremerci che fare riforme

Di Emanuele Boffi
29 Luglio 2011
Il Dottor Sottile è tornato a proporre una «imposta sulla ricchezza» che servirebbe all'Italia molto più delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. La reazione di Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni: «Purtroppo ci arriveremo, la nostra classe politica sta perdendo tutte le occasioni per riformare il paese»

L’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato è tornato oggi, tramite un’intervista al Corriere della Sera, a proporre una patrimoniale come unica via d’uscita alla crisi economica italiana. Amato è affezionato all’idea e questa è la seconda volta, nel giro di pochi mesi, che torna a rimetterla al centro del dibattito pubblico. Ne discutiamo con Alberto Mingardi, Direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni.

Amato dice che «se un’imposta sulla ricchezza una tantum può abbattere il nostro debito per qualche decina di punti e tranquillizzare i mercati, non possiamo sottrarci». Arriva a questa conclusione partendo dalla premessa che oggi la situazione è «grave» e che «il debito sovrano, una volta sinonimo di debito garantito, non è più tale». Ha ragione Amato nell’analisi? Ed è la patrimoniale l’unica soluzione ammissibile («non possiamo sottrarci») poste quelle premesse?
Mi sorprende che un uomo come Giuliano Amato assegni un valore tanto basso alla sua coerenza. Domenica sul Sole 24 Ore aveva scritto esattamente il contrario. Cito: per evitare «future turbolenze» Amato escludeva esplicitamente «l’imposta una tantum sulla ricchezza che io stesso proposi come extrema ratio» che oggi verrebbe proposta da altri per «abbattere subito il nostro debito al di sotto del 100%». «No», rispondeva Amato (a questo punto, direi: rispondeva a se stesso!), «non è accettabile che il secondo paese manifatturiero d’Europa sia afflitto da una stagnazione che rinnega il potenziale che esso ha nelle mani. Proviamo prima con azioni efficaci per la crescita». Nell’intervista al Corriere dice l’esatto opposto. Io sono convinto che, purtroppo, si arriverà alla confisca, cioè alla patrimoniale, non perché sia una soluzione giusta, e men che meno perché si tratti di una soluzione “equa”. Ci si arriverà semplicemente perché la nostra classe politica sta perdendo tutte le occasioni che le vengono presentate per riformare l’Italia. Ci si arriverà perché spremere gli italiani come limoni è l’alternativa più “economica”, dal punto di vista dell’elaborazione intellettuale: non serve sforzarsi, non serve avere un’idea di che cosa deve e che cosa non deve fare lo Stato, non serve immaginare soluzioni. Senza riforme, giustamente la nostra credibilità presso i mercati scivolerà sempre più in basso. Si arriverà al punto in cui avremo una vasta convergenza su una patrimoniale, o su una ipocrita «tassa sui ricchi», semplicemente perché la classe politica non saprà più che pesci pigliare e, nel suo cortotermismo, non saprà e non vorrà riformare lo Stato.

Amato dice altre due cose interessanti. Primo: occorre lavorare tutti di più. Secondo: privatizzare e liberalizzare non è la soluzione. Cosa ne pensa?
Se Amato vuole dire che liberalizzazioni e privatizzazioni non hanno un impatto istantaneo sulla crescita, scopre l’acqua calda. Ma che cosa ha un impatto istantaneo? Paradossalmente, la cosa che più potrebbe averlo è un drastico abbassamento della pressione fiscale, che ristabilisse appropriati incentivi alla creazione di ricchezza. Ma non è aria, e si parla invece (parla Amato) di aumentare le tasse, che invece è precisamente la singola misura che può avere i più nefasti effetti sulle prospettive di crescita del paese. Il dissesto delle finanze pubbliche è l’altra faccia della medaglia rispetto alla rapacità fiscale: l’uno e l’altra producono lo stesso risultato, cioè azzoppano lo sviluppo. Che il paese venga depredato subito, dal fisco, o nel futuro, dal debito pubblico, è un dettaglio di cui i mercati, giustamente, non si preoccupano particolarmente.

Le privatizzazioni servono per due motivi. In prima battuta, perché possono portare risorse. Ma, in seconda battuta, perché liberano dall’influenza statale interi ambiti della nostra economia, aprendo praterie alla creatività imprenditoriale. Le liberalizzazioni (un cavallo di battaglia di Amato quand’era presidente dell’Antitrust, ma mi rendo ben conto che sono passati tredici anni, e non solo tre giorni…) servono perché ristabiliscono le buone regole di mercato. L’Italia è il paese dell’incertezza del diritto: troppe norme e contraddittorie le une con le altre tagliano le gambe a chi vuole fare impresa. E a chi potrebbe scegliere di investire nel nostro paese.

Liberalizzare gli ordini non fa guadagnare punti di Pil? Può darsi. Ma non si può eludere il fatto che il nostro paese ha un bisogno disperato di dare segnali, segnali forti, al mondo. Dobbiamo lavorare tutti di più? Se vuol dire che il sistema pensionistico resta riformabile, e che non possiamo non prendere atto dell’allungamento della vita, Amato ha ragione. Se intende sottolineare come ci sia bisogno di contratti più flessibili e meno rigidi, orientati a stimolare la produttività, pure. In un caso e nell’altro, si tratta di riforme complesse, che richiederebbero un ancora più vasto consenso di privatizzazioni e liberalizzazioni. Non sono in alternativa: le malattie italiane sono tante, e andrebbero curate tutte. Se, però, Amato traduce l’invito a “lavorare di più” nella domanda “cosa può fare lo Stato per consentire a chi ha uno svantaggio competitivo sull’export di colmarlo”, siamo punto e a capo: lo Stato deve smettere di fare, lo Stato deve lasciar fare agli individui e alle imprese e, semmai, rimuovere tutti quei vincoli (legali, regolatori, fiscali) che impediscono alla gente di rimboccarsi le maniche.

Discorso sui precari. Amato dice: «Troviamo una terza via nei rapporti di lavoro, in modo che chi lavora in un’impresa partecipi della missione, e non faccia sentire l’impresa prigioniera di rigidità normative». Tra queste rigidità cita la soglia della “quota 15 dipendenti”.
Non capisco cosa sia la terza via. La partecipazione? Che c’entra con lo status dei rapporti di lavoro? La liberalizzazione del mercato del lavoro in Italia andrebbe completata, credo ci sia ampio accordo sul tema. Qualcosa di rilevante è stato fatto sul versante della semplificazione, ma si dovrebbe continuare, tornando indietro rispetto a quell’estenuante formalismo che ha caratterizzato, purtroppo, l’ispirazione di buona parte della nostra legislazione lavoristica. Ma terze vie? C’è una prima via: far sì che i contratti tornino ad essere contratti, riavvicinando le parti e allontanandole dalla politica. Su una cosa Amato ha perfettamente ragione: bisogna rimuovere l’assurda soglia dei 15 indipendenti, oltre cui la prospettiva per un’azienda cambia completamente. Ma, ancora, questa tensione verso il mercato sembra, nel ragionamento dell’ex presidente, del tutto avulsa da un contesto nel quale egli invoca più leggi, più tasse e più Stato.

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