Ieri, martedì 19 maggio, è uscito sulla Stampa di Torino un articolo molto istruttivo firmato da Mattia Feltri su “Quelli che temono il carcere se passa il ddl anti-omofobia”. Come si può evincere dal titolo, il giornalista vi riporta i peggiori scenari evocati dagli oppositori della controversa norma proposta al Parlamento da Ivan Scalfarotto (galera per chi si oppone alle campagne per i cosiddetti “diritti gay”) e lascia che sia lo stesso sottosegretario del Pd a tentare di dirimere ogni dubbio. Con quale risultato, ciascuno può valutarlo dalle parole di Feltri, che pur essendo una firma di Tempi non è certo un bigotto cattolico. Ecco alcuni passaggi del suo pezzo:
«La legge punisce con pene che vanno da sei mesi a sei anni chi propagandi idee sulla discriminazione sessuale o partecipi ad associazioni coi medesimi obiettivi o istighi a commettere violenza; è stata scritta, spiega Scalfarotto, estendendo all’omofobia la legge Reale-Mancino a proposito di violenza o discriminazione per motivi etnici o religiosi. “Vorrei tranquillizzare Adinolfi: non è che con la legge Mancino sono finiti alla sbarra decine di razzisti, che pure ci sono. Il diritto di opinione è tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, e nessuna innovazione penale lo supererà”.
E però è vero che è difficile capire quale sia la portata della discrezionalità del giudice. Poche settimane fa il manifesto elettorale di un candidato gay valdostano è stato deturpato con disegni di orecchini, collane e ciglia femminili. È reato di omofobia? “Ecco, un conto è l’omofobia, un conto il reato. Secondo me è omofobia ma non è reato”, dice Scalfarotto. E il cartello esposto a Lecce da un commerciante che esortava i genitori a “tenere lontani i vostri figli da gay”? Insomma, qualche serio problema di interpretazione c’è. “Deciderà il giudice”, ripete Scalfarotto affidando forse inconsapevolmente ma una volta ancora alla magistratura un potere che dovrebbe essere della politica. (…) Per limitare la portata della legge è stato aggiunto un emendamento (o meglio, il subemendamento Gitti, dal nome di chi l’ha scritto) per cui la pena non si applica ad associazioni “di natura politica, sindacale, culturale, sanitaria, di istruzione ovvero di religione”. Si fa l’esempio ovvio di una scuola ebraica che non assuma un musulmano come insegnante di religione. Dunque, se uno dice a dottrina che “i gay sono malati” non commette reato e se lo dice in una scuola pubblica sì? Difficile venirne fuori».
Ma se già di per sé è difficile capire dove finisca l'”omofobia” sanzionabile dalla legge e dove inizi invece «il diritto di opinione tutelato dall’articolo 21 della Costituzione», se nemmeno Scalfarotto riesce a chiarire questo confine a un quotidiano “laico” e moderno come la Stampa, di certo non può aiutare a rasserenare gli animi un contributo alla discussione come quello offerto da Pietro Grasso.
Come ricorda oggi in un commento Avvenire, Grasso, che non solo è stato un importante magistrato, ma è attualmente presidente del Senato, seconda carica dello Stato, è intervenuto a un convegno organizzato a Roma, Palazzo Giustiniani, in occasione della “Giornata internazionale contro l’omofobia”, e nella sua relazione «ha definito “incredibile” che in Italia “tanto è diffuso e radicato il pregiudizio omofobico” da dover assistere “alle lotte tra sindaci e prefetture per un semplice registro delle unioni civili”». Poco prima, aggiunge il quotidiano dei vescovi, Grasso «aveva portato come esempio di legislazione ideale quella del Lussemburgo, dove il premier ha potuto sposare il suo compagno».
Ma come osserva giustamente Avvenire, gli interventi dei prefetti stigmatizzati da Grasso «sono atti a tutela della legge vigente nel nostro Paese, che non prevede “semplici registri”» delle unioni civili. E se è inquietante che un ex magistrato non si preoccupi minimamente di considerare questo aspetto giuridico della vicenda, ancora più allarmante è che il presidente del Senato imprima il marchio di «pregiudizio omofobico» a posizioni quanto meno legittime, e forse anche istituzionalmente doverose. Se alla fine passerà il cosiddetto “ddl anti-omofobia” (già approvato alla Camera nel settembre 2013 e ora fermo in commissione proprio al Senato), bisogna solo sperare che non siano tanti i giudici che la pensano come lui.
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