Il paradosso della tolleranza, nel cui nome si zittiscono quelli che non tolleriamo
Oggi «assistiamo a una micro-guerra civile a bassa intensità e senza spargimento di sangue fra gli intellettuali che va sotto il nome di “correttezza politica” e avviene all’interno delle casematte accademiche». Lo sa bene, perché lo ha provato sulla propria pelle, l’autore di queste righe con cui introduce il suo breve saggio Tolleranza, da poco pubblicato da Liberilibri nella collana Voltairiana.
La tolleranza non è sinonimo di libertà, ma di concessione
Ed è proprio questo paradosso che l’autore spiega nel suo libro, tratteggiando le origine storiche e filosofiche del concetto di tolleranza, e svelando un equivoco decisivo: «La tolleranza non è sinonimo di libertà religiosa, al contrario si tratta di concessioni ai sudditi tipiche di uno Stato che ha ormai un credo prevalente: il potere sovrano tollera, ossia sopporta pazientemente, che alcuni sudditi abbiano credenze religiose devianti». Bassani spiega come la parola “tolleranza” nella sua accezione corrente sia un termine con una storia recente: nasce agli inizi del XVI secolo, quando l’Europa è dilaniata dallo scontro interno al cristianesimo, che il potere moderno – ancora nella sua fase embrionale – non poteva tollerare. «La tolleranza nasce infatti come urgenza prima della sovranità, diventa il vero brodo di cultura dello Stato e il liquido amniotico del potere nel corso dell’età moderna».
La grande rottura dell’epoca moderna
Se gli uomini si scontrano fino alla morte su come l’anima può ottenere la salvezza eterna, lo Stato moderno deve neutralizzare quel conflitto, o non potrà governare i suoi sudditi. Il profondo ma agile viaggio che Bassani fa fare al suo lettore nella storia degli ultimi cinque secoli è prezioso, perché aiuta a illuminare la grande rottura dell’epoca moderna, in cui «tutta la riflessione politica ruota intorno a quanto cristianesimo (e di che tipo) possa essere tollerato (e da chi) nella comunità politica». Comunità politica che è unita non perché i suoi membri credono nella stessa cosa, ma perché vivono sotto la stessa sovranità.
Lo Stato moderno, per usare le parole di Carlo Lottieri sul Giornale a proposito di questo libro, «anche al fine di depotenziare il prestigio della fede cristiana e collocare la religione ai margini della scena, ha alzato la bandiera di una (limitata) libertà di pensiero sulle questioni riguardanti Dio, sempre a condizione che nessuno osasse più alzare obiezioni in tema di rispetto della legalità, ossequio ai potenti e fedeltà fiscale». Ma, provoca Bassani, «l’idea di tolleranza ha fatto il suo tempo e ha svolto il suo compito: ha creato un unico soggetto di diritto, un suddito, o cittadino, la cui sfera religiosa è indifferente quanto la religione stessa».
Con Voltaire la tolleranza diventa attacco alla Chiesa
Il percorso ideale iniziato nel XVI secolo trova con Voltaire il suo punto di arrivo, «la tolleranza diventa parte essenziale dell’azione politica del sovrano, il quale deve assolutamente preoccuparsi di essere tollerante e non tollerare chi non lo è». Con il pensatore francese «la tolleranza acquisisce il suo volto definitivo di attacco alla Chiesa romana e di costruzione di uno spazio pubblico quanto più possibile decristianizzato». Negli ultimi cinquant’anni l’Occidente, che ha coniato e sviluppato il concetto di tolleranza, sconosciuto in tutte le altre culture, si ritira, proprio in nome della tolleranza, dell’inclusione, del rispetto, del riconoscimento dell’altro. Così facendo continua a scontrarsi con culture diverse, come ha sempre fatto, ma lo fa «a casa propria».
Dal ripiegamento dell’Occidente su se stesso nasce la ricerca di «autopurificazione e dell’epurazione di chi era meno puro». È la nascita del politicamente corretto, la fine della tolleranza che parte dagli Stati Uniti «ma ha risvolti planetari», il «disciplinamento dei chierici da parte dei chierici». Già, perché Bassani dice bene quando spiega che oggi «solo la classe intellettuale e politica è sottoposta alle occhiute intenzioni della polizia del pensiero. Gran parte della società non si sente, infatti, neanche sfiorata dal “politicamente corretto”, dalle restrizioni al pensiero, dai bavagli che giungono inaspettati e dalle gogne mediatiche che si scatenano nei confronti di qualche professore».
Solo chi interviene nel discorso pubblico generale deve stare attento a quello che dice, sia egli docente, giornalista, politico o influencer: l’inesorabile marcia dello Stato nelle vite dei cittadini ha nell’addomesticamento degli intellettuali il suo risvolto più evidente del nuovo totalitarismo dolce in cui viviamo, scrive il professore della Statale.
La dittatura del politicamente corretto
Il politicamente corretto è un catechismo civile, una censura a monte di ogni pensiero per cui «nessun partecipante al discorso pubblico dovrebbe mai poter essere dubbioso sulle grandi questioni che riguardano le discriminazioni etniche, di genere o fisiche, perché tutto è già stato reso asettico e pronto all’uso». Il paradosso è che tutto ciò non c’entra niente o quasi con la storia e la tradizione occidentale di tolleranza. L’ossessione di raddrizzare i pensieri storti altrui nasce dal sogno di Rousseau di rendere gli uomini «quali si ha bisogno che essi siano». La Rivoluzione francese ha trasformato la tolleranza in «un grappolo di diritti nelle mani del legislatore» aprendo il capitolo «dell’uomo nuovo, dell’individuo non più frazionario, ma totale perché rigenerato dallo Stato».
Gli Stati Uniti sono la culla della nuova ortodossia intollerante woke: «Le camice nere e le guardie rosse che l’America si era risparmiata nel secolo breve compaiono in questi anni nei campus impedendo di parlare a oratori non allineati e intimidendo professori dissenzienti». Pochi giorni fa in Idaho a un ragazzo della Kellog High School è stato impedito di partecipare alla sua cerimonia di diploma perché aveva detto che «guys are guys and girls are girls. There is no in-between». Ci sono anticorpi a tutto ciò, conclude Bassani: la libertà, «contraltare del politicamente corretto», e la verità, una questione che «qualcuno prima o poi dovrà porre, e forse l’essere umano offeso smetterà di essere la misura di tutte le cose».
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