Papa Francesco a chi dovrebbe consegnare le sue dimissioni?

Di Alfonso Indelicato - Emanuele Boffi
28 Agosto 2018
Due osservazioni in margine allo scandalo sollevato dal nunzio Viganò. La "dottrina" omosessuale e la richiesta di dimissioni. Ma un pontefice può dimettersi?


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Beninteso, siamo tutti peccatori. Lo siamo noi laici e lo sono anche i sacerdoti, tanto è vero che il sacramento della Riconciliazione è stato istituito per la nostra e per la loro salvezza. Il sacerdote in stato di peccato, anche mortale, non smarrisce per questo la facoltà di somministrare i sacramenti, la cui efficacia è «ex opere operato» e non «ex opere operantis», cioè non dipende dalla santità del ministro (Catechismo della Chiesa cattolica 1127 – 1128).
Non ci siamo mai scandalizzati troppo, pertanto, di fronte alle varie notizie di cronaca indugianti su scandali sessuali i quali coinvolgevano questo o quel prete. Di più: siamo convinti che molti di questi scandali vengano enfatizzati ad arte per gettare fango sull’intero ordine. Di più ancora: i sacerdoti incontrati nella nostra vita erano tutte persone dalla vita proba.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Però la questione della cosiddetta lobby gay nella Chiesa, ricollocata sotto i riflettori dal documento di monsignor Viganò pubblicato sulla Verità, in cui il presule arriva ad invitare alle dimissioni papa Francesco per aver “coperto” il cardinale americano McCarrick dedito a rapporti coi seminaristi, presenta dei profili per cui non si può, e neppure si deve, fare a meno di porsi degli interrogativi.

Una prima questione è la seguente: se è vero che la presenza di preti omosessuali nella Chiesa è così numerosa, ramificata e compatta come si evince dalla lettura del documento, non si deve ragionevolmente ipotizzare un difetto di origine, per chiamarlo così, nei seminari? Alcuni anni fa papa Benedetto aveva approvato la raccomandazione di non ammettervi persone con «radicate tendenze omosessuali» o sostenitrici «della cosiddetta cultura gay». È lecito domandarsi se essa sia stata accolta, tanto più che papa Ratzinger ha dato sovente l’impressione di essere simile a un capitano alla testa di un esercito a volte riottoso, e in taluni reparti addirittura infido o disubbidiente. Il subentrante Pontefice, che gode di un maggiore appeal, si è mosso sostanzialmente sulla stessa linea, ma a dar retta al documento di monsignor Viganò i risultati sono stati i medesimi del Papa tedesco, cioè scarsi.

Ma l’autentico punctum dolens, l’aspetto veramente allarmante della questione, è a nostro avviso un altro. Se questa lobby gay sussiste, e se è davvero numerosa ramificata e compatta come appare dal documento pubblicato sulla Verità, è assai improbabile che essa si accontenti di collocare i propri membri nei luoghi del potere ecclesiastico, insomma di garantirne la carriera e difenderli dagli attacchi. È invece verosimile che essa cerchi di manipolare la dottrina in direzione dei propri interessi. Che insomma cerchi di delineare dei margini di “discernimento” (oggi vera parola-passpartout) e di tolleranza tali da sostanzialmente sdoganare quello che illo tempore era il «peccato abominevole davanti a Dio».

Tutto quello che possiamo osservare, in proposito, è che segnali in questo senso ci sono. Fra gli altri non si possono non citare le posizioni del gesuita James Martin, aperto sostenitore del mondo lgbt e incomprensibilmente autorizzato da papa Francesco quale relatore all’incontro Mondiale delle famiglie appena celebrato. È solo un esempio tra i tanti possibili, e ci esentiamo dal proporne altri. Il pericolo, dunque, non è tanto che qualche sacerdote ceda alla tentazione «oggettivamente disordinata», ma che si ufficializzi il messaggio che la pratica dell’omosessualità è cosa possibile, accettabile, perfino buona. La Chiesa può ammettere il peccato nel mondo come dentro di sé, ma deve saperlo chiamare con il suo nome.
Alfonso Indelicato, consigliere comunale eletto a Saronno

* * *

Gentile Alfonso, c’è qualcosa che non mi convince in tutta questa storia delle accuse di monsignor Carlo Maria Viganò che è arrivato a chiedere le dimissioni di papa Francesco. Cerco di mettere in ordine un po’ di pensieri dando per scontati gli elementi di cronaca che il lettore potrà facilmente desumere con una semplice ricerca su internet. In attesa di particolari ulteriori che confermino o smentiscano la veridicità delle accuse di Viganò, ci sono almeno due osservazioni da fare.

Osservazione numero uno: gli omosessuali. La lunga lettera di Viganò mette in rilievo come sia all’interno della curia romana sia nei seminari il problema dell’omosessualità sia rilevante e diffuso. Nei confronti di persone con tendenze omosessuali la Chiesa ha sempre avuto una posizione netta. Chiaro rifiuto di una sessualità disordinata, ma accoglienza per la persona, che alle sue tendenze affettive non può essere ridotta né condannata. Lei ricorda giustamente la raccomandazione di papa Ratzinger, che mi pare sacrosanta. Che a padre James Martin sia persino concesso il palcoscenico della Giornata della famiglia, bé, è semplicemente scandaloso. Che c’entra l’agenda lgbt col Vangelo?

Non vediamo complotti dove non ci sono e siamo sempre cauti a giungere a conclusioni affrettate, ma che la Chiesa non possa accettare di essere condotta da vescovi, cardinali o sacerdoti che abbracciano l’omosessualità come linea ideologica, pare il minimo. Attenzione, ribadiamo: il problema non è se queste persone “sono” omosessuali, il problema è se la loro omosessualità diventa dottrina e si sostituisce al magistero.

Osservazione numero due: la richiesta di dimissioni. Viganò non si è limitato a denunciare una serie di gravi inadempienze e manovre da parte di molti ecclesiastici, ma è arrivato fino a chiedere le dimissioni di Francesco, colpevole di sapere e di non essere intervenuto. Lo fa nella parte finale del suo lungo scritto appellandosi al fatto che, poiché Francesco ha chiesto «tolleranza zero» contro gli abusi, allora deve dare «il buon esempio» e dimettersi. Ma il Papa non si «dimette», non è il capo di una azienda, non è un amministratore delegato. Lo stesso Benedetto XVI non si è «dimesso», ma ha «rinunciato» all’esercizio petrino. È una differenza sostanziale e mi stupisco molto che Viganò si sia spinto a usare proprio quell’espressione: dimissioni.

Ci ritrovo uno modo di argomentare ben poco “cattolico”, se mi si passa l’espressione. Quand’anche Viganò avesse ragione e tutto quello che ha scritto corrispondesse al vero, la sua richiesta di dimissioni è profondamente lontana da quelli che sono i doveri di un uomo di Chiesa. La rinuncia di un Papa deve essere «libera», così invece la richiesta assume i connotati di un ricatto. Lo stesso Benedetto XVI ha più volte ribadito che il suo gesto è stato libero e non costretto da alcuna circostanza. Se Viganò, come dice nella parte finale del suo lungo scritto, ha fatto tutto questo per il bene della Chiesa, è sicuro che la richiesta da lui avanzata faccia – effettivamente – il bene della Chiesa?

Leggo sui giornali che Viganò aveva il dente avvelenato per non essere stato promosso nel ruolo che agognava. Non mi interessa, non è questo il punto. Il punto non è se Viganò è meno stinco di santo di quelli che accusa. Il punto non è se all’interno della Chiesa ci siano peccatori (sai che scoperta), il punto è che la richiesta di Viganò, così come è stata formulata, risponde a un modo di ragionare basato su categorie puramente mondane.

San Paolo dice che quando vuoi correggere un fratello, prima lo interpelli in privato, poi davanti a testimoni, poi in assemblea. Quando i quattro cardinali fecero pervenire a papa Francesco i loro dubia, seguirono questo metodo. Ma attenzione: lo fecero in una formulazione prevista dal diritto canonico e posero al Papa delle “domande”. Quello di Viganò, a conti fatti, è invece un ordine: poiché sei stato incoerente, devi dimetterti. Ma, appunto, ci si dimette da un ruolo o da una posizione che si ricopre in un’azienda. E Francesco a chi dovrebbe consegnare le sue dimissioni? Al suo accusatore? A Dio? E d’ora in poi come ci dovremmo comportare? Se ogni papa fosse sottoposto al giudizio degli uomini che possono destituirlo a seconda delle loro preferenze, sulla base di accuse ancora da dimostrare, in sostanza cosa diventerebbe il soglio pontificio? Una carica sottoposta al tribunale degli uomini? È una linea che non va superata, questa. La Chiesa può essere «meretrix» quanto si vuole, ma va sempre rammentato che è anche «casta», cioè «santa», perché il suo fondamento e la sua missione non sono “solo” di questo mondo. Se sbaglia, va corretta; se i suoi sacerdoti si macchiano di gravi peccati, è giusto chiederne la purificazione; ma la sua “natura” non può essere modificata. Perché è fatta “di” uomini, ma non è stata fondata “da” uomini. Nemmeno il papa può decidere di dimettersi, tanto è vero che lo stesso Ratzinger, pur non agendo più da pontefice, lo è comunque rimasto.

Chi conosce la storia della Chiesa, sa che ci sono stati pontefici con figli, papi guerrieri, successori di Pietro che si sono macchiati di peccati tremendi. Nessuno si è mai dimesso e nessuno si è mai sognato di chiederne le dimissioni. Fabrice Hadjadj ha detto una volta che un papa è un «supplente dell’Eterno». Ecco, converrebbe tenere sempre a mente che la Chiesa non è una società per azioni: è “in” questo mondo, ma non è “di” questo mondo. Neppure Pietro, che tradì Cristo, poté venire meno a quel compito che Lui gli affidò.

Foto Ansa

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