Pakistan. Per cristiani e musulmani accusati di blasfemia, neanche il carcere è un luogo sicuro
MINACCE DI MORTE. Zafar Bhatti, originario di Karachi (foto a sinistra), è stato denunciato nel luglio del 2012 a Rawalpindi per violazione della legge sulla blasfemia da Ahmed Khan, vicesegretario del movimento islamico Jamat Ehl-e-Sunnat. Khan ha accusato il pastore di avergli mandato messaggi blasfemi sul cellulare insultando la madre di Maometto, reato punibile con la condanna a morte. L’accusa in questi due anni non è mai stata dimostrata. Anzi, il numero da cui sono stati inviati i messaggi incriminati si è rivelato di proprietà di un’altra persona.
“BLASFEMO” SALVO. Un agente di polizia, «ispirato da Dio», la mattina del 25 settembre è entrato nella prigione di Rawalpindi per uccidere i blasfemi e ha cercato di assassinare Mohammad Asghar, scozzese di origini pakistane e malato di mente, condannato a gennaio per la sua pretesa di essere un profeta dell’islam venuto dopo Maometto, è stato colpito da un proiettile alla schiena ma è rimasto miracolosamente illeso.
LEGGE SULLA BLASFEMIA. Nella stragrande maggioranza dei casi la legge sulla blasfemia viene utilizzata in modo strumentale per vendette personali o ragioni economiche: gli accusati, infatti, sono spesso costretti ad abbandonare le loro proprietà, che vengono rilevate per due soldi o addirittura sequestrate dagli accusatori. Ne è prova il fatto che oltre il 95 per cento di queste accuse si rivelano in sede giudiziaria false e infondate.
Ma nonostante questo non c’è scampo per chi viene accusato di blasfemia: cristiani e musulmani sono stati uccisi mentre entravano in tribunale per il processo, perché per i gruppi fanatici islamici non c’è giustizia umana che possa contraddire quella divina. Questo è il motivo per cui sempre più spesso gli imputati non assistono ai dibattimenti in aula e, anche quando vengono assolti, sono costretti a lasciare il paese per sempre. Purtroppo, come i casi dell’ultima settimana dimostrano, gli accusati non vengono protetti neanche in carcere.
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