Bestiale sfoggio di pietas verso l’orso investito in Abruzzo

Di Caterina Giojelli
25 Gennaio 2023
Incolpare l'uomo di non saper più distinguere un animale da un peluche e al contempo piangere l'animale come fosse stato ucciso un uomo. Le paradossali omelie sulla fine del plantigrado Juan Carrito
Una delle scorribande dell'orso Juan Carrito
Una delle scorribande dell'orso Juan Carrito (foto Ansa)

Il dibattito sulla morte dell’orso Juan Carrito, nato da Amarena, entrambi star del parco d’Abruzzo, non andrà in riserva facilmente. Il ragionamento, al netto degli inevitabili toni un po’ patetici alla Walt Disney, è semplice: l’orso è stato investito da un’auto sulla strada statale 17 che attraversa l’Appenino abruzzese. Un orso non dovrebbe passeggiare sulla statale. Se passeggiava sulla statale è perché era diventato troppo “confidente”. E se era diventato così confidente è colpa dell’uomo che non lo ha trattato come un orso. Fin qui fila: Masha non è Orso e l’uomo non è un cartone animato.

L’orso sulla statale ucciso da “noi”

Non fosse che il ragionamento prosegue: se noi uomini siamo colpevoli di averlo reso così confidente, se gli abbiamo permesso di familiarizzare con noi, allora siamo stati noi a ucciderlo. Noi, cioè in ordine anacronologico: la persona al volante che l’ha investito; l’ente Parco Nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise che non sa proteggere l’orso marsicano; le istituzioni che dopo avere sfruttato Carrito a fini turistici non hanno posto adeguati limiti di velocità sul rettilineo; i possessori di smartphone che ne hanno fatto una mascotte filmando le sue scorribande (dai pollai, al ristorante tre stelle Michelin di Niko Romito); i social e le testate che le hanno rese virali facendo di Juan Carrito non un orso, ma una celebrità, «l’abruzzese più cliccato sul web».

Inquietante che gli stessi strumenti che un giorno non distinguono tra vite, valori e diritti di uomini e animali (e spesso anche piante), il giorno dopo lancino strali contro l’incapacità dell’uomo di concepire un orso come tale. «Schiacciato contro un guard rail – scrive l’HuffPost – . Si chiamava Juan Carrito e nel nome è già raccontata la sua storia e la sua fine. Perché Juan Carrito era un orso e quando agli orsi viene dato un nome e vengono considerati trofei visivi da esibire sul cellulare le probabilità che la loro vita si accorci aumentano: si avvicinano troppo a un mondo che non è il loro (…) Ma l’amore per l’orso ha bisogno di rispetto e di giusta distanza, un’idea che fatica a diffondersi».

Nessuna distanza ma #GiustiziaPerDaniza

Ma perché è diventato più facile empatizzare con l’orso piuttosto che con uno del nostro mondo – il conducente dell’auto, innanzitutto, che vivaddio è ancora vivo e in mezzo a noi? Ora vorrebbero farcela digerire in quanto “bene” per l’orso, ma sono anni che marciamo  calpestando qualunque idea di “giusta distanza” tra uomo e animale. Quando il podista Valdimir Molinari venne aggredito e mezzo sbranato da un orso in un bosco a 10 chilometri da Trento, la Lac (Lega abolizione caccia) fece spallucce: «Molinari non è vittima dell’orso, ma della carenza di informazioni».

Quando nell’anniversario delle Torri Gemelle l’orsa Daniza morì per errore in seguito ad una anestesia durante la sua cattura, prime pagine, tg e internet scatenarono il putiferio: #GiustiziaPerDaniza, «un altro 11 settembre», l’Enpa parlò «animalicidio», la Lav chiese gli arresti per il presidente della Provincia di Trento (Daniele Maturi, aggredito dall’orsa il mese prima, invece continuò a ricevere «minacce dal web»).

«Cucciolo, non perdonarci»

Oggi che è morto Juan Carrito, la reazione iperbolica di media, esperti, lettori e utenti educati al “pensiero critico” da chi oggi fa la morale al genere umano è la stessa di allora: «Nonostante un minuscolo virus predatore ci abbia fatto capire che siamo fragili, pericolosamente in bilico sull’orlo del burrone, noi continuiamo a farci sedurre dalle protesi della vita quotidiana: Ma di cosa? Solo una stupida illusione di mantenerci padroni delle cose e del futuro? O una specie di disperata voglia di buttarsi in quel burrone e farla finita?», scrive Dacia Maraini. «E tu povero Juan, cosa ne sapevi che sull’asfalto avresti trovato la morte, nulla, cosa potevi saperne, ti avevano costruito una strada lì dove doveva esserci un bosco. Abbiamo ripagato così la tua fiducia, togliendoti la vita. Come fosse burro, o fiocchi al vento. Come se dalla morte si potesse tornare indietro. Ma si, tanto a morire, questa volta è toccato a te. Questa volta», scrivono i volontari della Lega Internazionale Vigilanza ODV- Tutela Animale e Ambiente.

C’è chi accusa lo Stato di «non fare nulla», chi, come il Wwf, parla di «tragedia annunciata», chi chiede «giustizia», «galera» per il conducente, per chi «corre sulla strada», per chi ha messo «una strada lì», «ci ha rimesso la vita l’ennesima creatura innocente», «non viene insegnato da piccoli il rispetto per ogni forma vivente», «Cucciolo, non perdonarci», «quanti altri orsi dovranno pagare per tutto questo?» e via discorrendo.

«Juan Carrito è morto da orso libero, un ragazzo alla James Dean»

Difficile appellarsi alla “giusta distanza” senza considerare l’eterna, assurda sproporzione tra il fatto (ancora una volta la morte di un animale: triste, tragica, per carità, ma di un animale e questo resta un fatto) e le reazioni alle parole usate per raccontarlo: «Sono sconvolto, è come se fosse scomparso un familiare», dice Luciano Sammarone, direttore del Parco nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, «quasi singhiozzando al telefono» con Repubblica. «Juan Carrito, piccola consolazione, è morto da orso libero, era uno di quei “ragazzi irrequieti” alla James Dean», «Nella sua storia i nostri errori: trattiamo gli animali selvatici come peluche». Errore: li trattiamo come James Dean, cioè esseri umani.

Difficile trattarli come orsi sulla base di ragionamenti un po’ bestiali. Come spiegò magistralmente il filosofo spagnolo Fernado Savater alla stessa Repubblica (da rileggere, ancora una volta, qui) prima della morte dei plantigradi F43, di Papillon, di Daniza, di Gaia e di Juan Carrito: «I veri barbari sono coloro che non distinguono uomini e animali. Caligola che fece senatore un cavallo e uccise centinaia di persone che non apprezzava. Quello era un barbaro. Perché trattava gli uomini come gli animali e gli animali come gli uomini».

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