
Articolo tratto dal numero di ottobre di Tempi
Alan Fabbri partiva in vantaggio. Il sindaco leghista che il 9 giugno ha strappato Ferrara a un dominio della sinistra durato 74 anni non si vergogna di essere quello che è, di pensare quello che pensa, di vedere quello che vede. Un grosso vantaggio, appunto, forse perfino decisivo, nel confronto con avversari politici che in campagna elettorale per provare ad arrestare la sua ascesa si sforzavano di vedere i fantasmi: se vince il salviniano, dicevano, arrivano i barbari, i fascisti, i razzisti, quelli che non sanno fare i conti.
Invece lo sapevano anche loro che Alan Fabbri non è nulla di tutto ciò. Quarant’anni tondi e un codino leggermente ingrigito ma fedelissimo (ha resistito perfino a Silvio Berlusconi che per le regionali del 2014 glielo avrebbe fatto tagliare volentieri), è un uomo grande e grosso ma reso tutt’altro che spaventoso dall’occhio sornione e da un’aria perennemente, molto emilianamente, “polleggiata”. Di stirpe contadina, a sua volta ha lavorato in campagna per mantenersi durante gli studi da ingegnere, e forse anche per questo conserva la semplicità di chi non si sente superiore a nessuno. Ovvio che tanti ferraresi, vedendolo addentrarsi nei quartieri malfamati in cerca dei loro problemi, oltre che dei loro voti, trovandoselo accanto nelle zone off limits della città dove il Pd non metteva il naso da tempo, si siano sentiti subito a proprio agio.
Quando accoglie Tempi nel suo ufficio del Palazzo municipale, antica residenza estense nel cuore del centro storico, è passata soltanto un’estate dal suo insediamento e Fabbri non ha perso lo slancio del vincitore, però appare affaticato. Si narra che per non dire no a nessuno arrivi a ricevere fino a quaranta persone in un giorno solo. Del resto dieci anni fa, da sindaco di Bondeno, il suo paese natale, pare che ricevesse chiunque senza nemmeno fissare appuntamenti. Un’altra leggenda vuole che si sia infilato la giacca per la prima volta nel 2014, entrando in Consiglio regionale dell’Emilia Romagna.
Alan Fabbri non riesce a stare antipatico a nessuno. «I suoi concittadini – ha scritto un giornale locale quando lui era ancora il candidato sindaco del centrodestra a Ferrara – alla stampa non fanno filtrare altro che lodi, con i giornalisti che a un certo punto si trovano a chiedere direttamente “ma difetti ne ha?”, e ne trovano solamente intervistando i capi dell’opposizione». Suonava il basso in una band specializzata in cover di De André, non esattamente un’icona di destra, e nel 2005 ha inventato il Bundan Celtic Festival, che è diventato un appuntamento cult per gli amanti dello strampalato genere della rievocazione celtica. Soprattutto, bazzicando la Lega da quando aveva 14 anni, Fabbri si è fatto davvero tutta la cosiddetta trafila. Il suo nome ha iniziato a circolare nelle cronache nazionali dopo il sisma del 2012: all’epoca ancora primo cittadino di Bondeno e divenne “il sindaco del terremoto”, poi apprezzato vicecommissario alla ricostruzione.
Fabbri è uno che ci tiene e quindi si spende al di là del dovuto. La sera dell’intervista con Tempi ha partecipato anche a un incontro di presentazione del giornale in città. Il suo nome non era nemmeno sulla locandina e gli impegni non gli mancavano, per di più era Tempi, mica il Corrierone, ma lui ha voluto ugualmente esserci e prendere la parola per un saluto. A campagna elettorale finita da un pezzo, non può essere stato solo calcolo politico. A rischio di spingersi troppo in là: è sembrato proprio un gesto di amicizia e di stima verso la Fondazione Enrico Zanotti e il Centro culturale L’Umana Avventura, organizzatori della serata, realtà vive del territorio che provano a dire la loro.
Il flagello “salvabanche”
In maniche di camicia, il sindaco di Ferrara parla come gli viene, dando l’impressione di non aver paura delle sue idee, nemmeno quando si toccano argomenti “sensibili”. Come detto, partiva in vantaggio Alan Fabbri. Infatti, se deve spiegare le ragioni della sua «vittoria storica», di getto risponde con una battuta: «E perché avremmo dovuto perdere dopo settant’anni di questa sinistra?».
I fattori principali, spiega Fabbri, sono stati quattro. «Primo, siamo andati in mezzo alle persone, mentre la vecchia amministrazione, specialmente negli ultimi cinque anni, si era chiusa in se stessa, dando per scontato, grave errore, che avrebbe vinto comunque, che i figli avrebbero continuato a votare come i padri. Invece le cose erano molto mutate, qui come in tutta Italia».
A Ferrara, poi, molti che fino a ieri, quasi per inerzia, avevano sempre votato a sinistra hanno cambiato improvvisamente opinione politica «quando gli sono entrati nel portafoglio». Ecco il secondo fattore: il famigerato “decreto salvabanche”. Per dare l’idea di che cosa ha voluto dire quel provvedimento per la città, Fabbri lo riassume così: «Con la semplice firma sotto un pezzo di carta da parte di un governo tra i cui ministri figurava anche Dario Franceschini, che è di Ferrara, nella nostra provincia 32 mila risparmiatori di Carife sono stati azzerati. Mandando in crisi un sistema produttivo, la fondazione della città e tutto il resto. Per di più, senza spiegazioni convincenti. Tre anni dopo, il presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, Salvatore Maccarone, convocato dalla Regione ha rivelato a noi consiglieri che la banca era stata inserita nel decreto solo per “fare massa” e poter così applicare il cosiddetto bail-in».
«Mai visto un siriano qui»
Terzo fattore vincente, manco a dirlo, «il tema sicurezza, che per tanti versi coincide con quello dell’immigrazione. I nostri predecessori hanno sottovalutato l’innestarsi e il diffondersi della mafia nigeriana, che si è impadronita di interi quartieri. Dicevano che era solo un problema di percezione, che la mafia nigeriana non esiste, che non c’è un’emergenza sicurezza. Ai cittadini, però, la realtà non sfuggiva». Fabbri pensa al famigerato quartiere Gad, il regno dello spaccio di Ferrara dove la polizia per farsi capire durante i controlli deve chiedere i documenti in inglese. «Sfido chiunque a sostenere che sia un posto dove crescere i figli o passeggiare tranquilli di notte», dice Fabbri a Tempi. La mafia nigeriana, insiste, «è un problema grave. Non solo per le risse tra bande. Pochi mesi fa hanno fatto le barricate con i cassonetti in viale della Costituzione. Pensavano, a torto, che un immigrato fosse rimasto ucciso in un inseguimento con la polizia: in pochi minuti è partita una rivolta di 50-60 persone. Sono organizzatissimi». Sempre nel Gad, racconta il sindaco, ha un albergo Elias, italiano di origini congolesi: «Si è candidato nella nostra lista e da allora tutti i giorni ha intorno quella gente che lo perseguita e lo minaccia».
Per Fabbri insomma «non è una questione di razza, ma di sicurezza». I richiedenti asilo in provincia di Ferrara erano arrivati a 1.700. Oggi, dopo i mandati di Marco Minniti e Matteo Salvini al ministero degli Interni, «sono circa 700 di cui la metà in città. Ricorda che l’emergenza è partita con la guerra in Siria? Ebbene, in tutti questi anni non un solo siriano ha messo piede in terra ferrarese. I siriani se li sono presi tutti i tedeschi. Voglio dire: un conto è chi ha diritto alla protezione internazionale, altro è gestire un’ondata migratoria incontrollata. Non dico che siano tutte persone cattive, ma c’è un motivo se le file della mafia nigeriana si ingrossano. Il governo dei confini è una responsabilità politica, altrimenti accogliamo tutti ma non aiutiamo nessuno».
Nel 2014, sul palco del tour salviniano “Stop invasione”, Fabbri, all’epoca primo cittadino di Bondeno, raccontò: «Il prefetto di Ferrara ci ha chiesto di accogliere dei clandestini (perché non sono migranti, sono clandestini). Gli ho risposto che non non ne accoglieremo uno finché avremo ancora mille nostri concittadini che vivono nei container». «Io sono preoccupato», conferma a Tempi. «L’ho detto subito al prefetto quando mi sono insediato: se riprenderanno gli sbarchi, noi non saremo collaborazionisti. Se vuole, sequestri pure gli stabili del Comune, vedremo in tribunale chi ha ragione e chi torto. Io sono per l’immigrazione regolare, l’accoglienza indiscriminata non è un modo per aiutare gente che ne ha bisogno, ma per mantenere il sistema dell’accoglienza».
Disprezzo e arrivismo
Per spiegare l’espugnazione di Ferrara c’è poi un quarto fattore che li riassume un po’ tutti. «Il nostro migliore alleato in campagna elettorale è stato il Pd. Hanno il dogma ideologico per cui solo loro hanno ragione e gli altri sono tutti minus habens. Purtroppo per loro, ci sono persone normodotate capaci di amministrare anche nel centrodestra. Hanno continuato ad attaccarmi a livello personale insultandomi per tutta la campagna elettorale, ma io avevo già fatto il sindaco due volte, il vicecommissario per la ricostruzione postsisma, il consigliere provinciale e poi regionale, l’assessore provinciale. Qualcosa l’avremo costruita anche noi in questi anni, no? Non è un caso se la maggioranza dei comuni della nostra provincia sia ormai amministrata dal centrodestra».
Ferrara sarà davvero il trampolino di lancio per la conquista di una delle Regioni più rosse d’Italia? Il governatore dem Stefano Bonaccini ha appena stabilito che l’Emilia Romagna voterà il 26 gennaio 2020, allo scadere dei termini di legge, forse anche per consentire a Pd e M5s di accordarsi per replicare l’alleanza nata a Roma, già riprodotta in Umbria. La Lega, invece, sperava di andare alle urne a novembre. «Se si votasse domani, vinceremmo anche in Regione», assicura Fabbri. «Subito dopo la crisi di governo, c’è stata una reazione anti Lega, poi quando si è capito che tra il Pd e gli arrivisti grillini era già tutto scritto, si è capito anche lo strappo di Salvini. Mai vista così tanta gente a Pontida». Il sindaco comunque resta cauto: il volano Salvini, spiega, «è servito eccome», così come la concomitanza comunali-europee, che ha politicizzato il voto; tuttavia queste cose nelle elezioni locali contano fino a un certo punto. «Io ho preso più voti della lista. Conosco la città, ci ho studiato, ci ho vissuto. E a Forlì, altra presa storica, si è vinto perché sostenevamo un candidato civico».
Un patto chiamato federalismo
L’unica certezza, insiste Fabbri, è che dopo 70 anni c’è voglia di cambiamento perché il “modello” emiliano non funziona più, «l’esigenza di controllo ha bloccato tutto, compresi gli investimenti», mentre il sistema «da politico è diventato clientelare. Pochi anni fa l’allora vicesindaco di Ferrara mi ha querelato perché avevo detto una cosa normalissima: anche se fosse legale, moralmente e politicamente non è accettabile che nel tempo siano stati assegnati a un cooperativa da lui fondata, senza bandi, diversi milioni di euro per la gestione degli immigrati. Alla fine la querela è stata archiviata».
Il tema dell’autonomia, invece, comincia a prendere piede non tanto a livello culturale, perché «l’Emilia-Romagna non è il Veneto né la Lombardia, la nostra è una terra fatta di tanti ducati diversi, dubito perfino che i ferraresi guardino le cose come “emiliano-romagnoli”». Piuttosto, sono le imprese del territorio, quel «tessuto produttivo che vive quotidiamente il dramma della burocrazia italiana», che iniziano a vedere nell’autonomia una possibilità di sopravvivenza, «perché, ripeto, qui siamo bloccati dal sistema in molti ambiti, a cominciare da infrastrutture e welfare». Federalismo, ricorda Fabbri, «deriva da foedus: è un patto tra cittadino ed eletto. Se io faccio una stupidata a Ferrara, la gente sa dove venire a cercarmi. Se la faccio a Roma, chissà. Ecco la logica dell’autonomia».
Un tema su cui Bonaccini ha scelto invece l’approccio soft: niente referendum, meno materie rispetto alle 23 richieste da Veneto e Lombardia. «Adesso c’è il Pd al governo, gli auguro di spuntarla», ironizza Fabbri. Come i governatori e colleghi leghisti Luca Zaia e Attilio Fontana, è convinto che «i cinquestelle ci hanno fatto perdere un anno. Credono all’autonomia ancora meno di Renzi. E sa quanto ci crede Renzi? Ho un ricordo nitido al riguardo. Lui era il premier incaricato, e Salvini ebbe la buona idea di portare al colloquio con Renzi, oltre ai capigruppo di Camera e Senato, anche gli enti locali: portò me che ero il “sindaco del terremoto”, il presidente della Provincia di Sondrio e il governatore del Veneto. Zaia gli disse: noi siamo all’opposizione, ma siamo pronti a collaborare sulla riforma del Titolo V della Costituzione. Risposta di Renzi: e io che cosa dico a quelli della Basilicata?».
Il caso dei 385 crocifissi
«Oggi anche Peppone sarebbe leghista». È un’altra battuta di Fabbri che ha conquistato una risonanza nazionale. Lui la disse qualche anno fa in polemica col sindaco dem di Brescello che aveva semi-difeso un boss della ’ndrangheta lì residente. E però, ironia della sorte, uno degli avversari più duri il Peppone leghista lo ha trovato a Ferrara proprio in un prete, non un don Camillo bensì l’arcivescovo, Gian Carlo Perego. A Fabbri e ancor più a Salvini, il monsignore rimprovera in continuazione la scarsa disposizione all’accoglienza. Anche quando a fine agosto si è diffusa la notizia che il neo sindaco aveva fatto comprare 385 crocifissi perché fossero appesi nelle aule delle scuole comunali rimaste sprovviste, Perego gli ha rinfacciato che quel simbolo richiede «una risposta coerente con ciò che propone» e impone di pensare ai «“crocifissi viventi” di oggi». Con Tempi Fabbri evita di replicare all’arcivescovo, limitandosi a precisare che lui non cercava visibilità. «Il contrario esatto. L’ho sempre fatto anche a Bondeno: durante i mesi estivi prendevo i crocifissi e li facevo appendere senza dire nulla. Non sono praticante, ma credo che quel simbolo sia importante non solo per il suo significato religioso: lo è per la cultura occidentale. Volevo pubblicare un comunicato un mese dopo per dire: “Vedete? Nessuno se n’è accorto e nessuno si è offeso”. Peccato che un dirigente abbia predisposto e pubblicato una determina per l’acquisto, così il Carlino l’ha notata ed è partita la polemica». Tradimento? «Diciamo ingenuità».
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