Nuoce gravemente al fisco
[cham_inread]
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ci sono tre parole che non possono essere pronunciate nel dibattito pubblico e politico: tabacco, sigarette, fumo. L’atteggiamento ipocrita dei media, della politica e della burocrazia, ci ha imposto di escluderle da qualsiasi conversazione. Eppure l’industria del tabacco porta allo Stato italiano più di 10 miliardi di euro ogni anno (10,3 nel 2014 e addirittura 10,9 nel 2012). Seppure in calo, i fumatori sono 11,7 milioni (Doxa 2017). Gli impiegati complessivi nella filiera del tabacco coinvolgono oltre 190 mila persone: di queste, il 25 per cento fa riferimento alle prime fasi della produzione (tabacchicoltura, prima trasformazione e manifattura), mentre il restante 75 per cento è impiegato nella fase di distribuzione e commercializzazione (XVI Rapporto Nomisma 2012).
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Di industria del tabacco faremmo quindi bene a discutere in modo trasparente per garantire scelte condivise e coerenti, e in modo costruttivo per assicurare maggiore competitività al mercato (più stabilità e meno frammentazione), più scelta per i consumatori, e maggiori entrate per lo Stato. Si dovrebbe così favorire anche la riduzione del numero dei fumatori e la migrazione di questi verso i così detti prodotti innovativi. Sarebbe un circolo virtuoso che contribuirebbe a promuovere il diritto di scelta e quindi la libertà di ricreazione dei consumatori, a ridurre il numero dei malati da fumo e le spese sanitarie, e a garantire allo Stato introiti fiscali sostanziosi.
Perché tutto questo possa avvenire è essenziale risolvere due ordini di problemi: la questione fiscale e il riconoscimento e la conseguente efficace regolamentazione del mercato dei prodotti innovativi. Sono entrambi urgenti ma qui ci limitiamo alla questione fiscale, che è meno affascinante rispetto all’innovazione dei prodotti ma richiede un intervento immediato per tutelare la concorrenza, i consumatori e le entrate a cui il governo ambisce.
La riforma del settore (2015) ha modificato alcuni parametri di riferimento nonché aumentato l’onere fiscale minimo. Ha avuto un impatto contenuto ma positivo sul settore: le entrate sono leggermente aumentate per effetto dell’apprezzamento del valore del mercato, il contrabbando ha registrato un aumento poco significativo, mentre sul mercato si è registrato un livellamento verso l’alto delle fasce di prezzo più basso. Gli effetti positivi che la riforma ha contribuito a generare si sono però interrotti con l’estate del 2017, quando il governo ha dovuto correggere urgentemente il bilancio nazionale (manovra correttiva). Il tabacco era come sempre in cima alla lista dei settori da colpire fiscalmente. Così è stato subito colpito. L’intervento, inizialmente previsto per febbraio, si è materializzato a luglio (quando mai si lasciano le imprese in sospeso per tutti questi mesi?). Il governo ha aumentato l’onere fiscale minimo che impatta le fasce di prezzo basse, l’incidenza che coinvolge tutte le fasce di prezzo non impattate dall’onere fiscale minimo, e la componente specifica che riduce il peso della fiscalità sulle fasce di prezzo più alte. L’ennesimo ritocco della fiscalità ha messo purtroppo in evidenza le due criticità rimaste irrisolte con l’ultima riforma: l’eccessiva discrezionalità e la scarsa trasparenza che da essa deriva.
Urge un calendario prestabilito
La discrezionalità assegna a chi detiene il controllo delle dinamiche del prezzo (agenzia dei monopoli e ministero dell’Economia) il potere di intervenire sulle accise in ogni momento senza alcun criterio condiviso. Ne soffrono le imprese del settore che si trovano a operare in un mercato instabile e poco concorrenziale. Ne soffrono i consumatori che si ritrovano prezzi diversi ogni volta. C’è il rischio poi che per arginare questa discrezionalità le parti coinvolte privilegino relazioni amicali e clientelari che ovviamente tradiscono la trasparenza rendendo il mercato ancora più incerto. La mancanza di confronto e la disperazione con cui i governi si muovono alla ricerca di risorse sono spesso foriere di cattivi consigli. Così è stato. Infatti, già a luglio 2017 le entrate hanno registrato un calo di oltre il 2 per cento, mentre uno studio recente (Casmef) stima che a fine anno l’ammanco rispetto alle previsioni di gettito possa ammontare a circa un miliardo. Sarebbe il primo governo della storia che incassa meno dal tabacco di quanto ha previsto.
Sarebbe perciò auspicabile che l’esecutivo attuale e il prossimo rivedessero lo schema fiscale, e lo facessero all’interno di un calendario fiscale prestabilito. Si limiterebbe così la discrezionalità garantendo un bilanciamento degli interventi; si fornirebbe chiarezza sia in termini di gettito per l’erario sia per le aziende. Questo calendario consentirebbe ai governi di compiere stime più precise mentre garantirebbe alle imprese quella stabilità necessaria per pianificare attività e investimenti, cioè continuare a fare quello che meglio sanno fare, produrre, soddisfare i consumatori e creare posti di lavoro e ricchezza. Perché non farlo?
Foto Ansa
[cham_piede]
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!