
Non rivelare loro che si può essere vincitori anche se #vatuttomale

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Mio caro Malacoda, “andrà tutto bene” è stato un suggerimento di facile ottimismo che già sta scolorendo sugli stessi balconi su cui da anni è scomparsa la bandiera arcobaleno dei pacifisti. Sappiamo che “andrà tutto bene” è un’illusione progressista, la convinzione irrazionale per cui il XXI secolo sarà meglio del XX, che è come dire che il mercoledì è sempre meglio del martedì. Perché le cose vadano bene occorrerà impegno, costanza, intelligenza, capacità di correggere gli errori, solidarietà, pazienza… Insomma, bisognerà mettere in campo, potentemente, la libertà. E anche allora il risultato non sarà scontato. La possibilità dell’insuccesso, come quella della sorpresa, è ineliminabile. C’è solo un caso in cui questi uomini affannati e sorprendentemente stupiti di non poter dominare il virus, l’ambiente, l’economia… cioè la vita, potranno essere sempre e comunque vincitori. E lo dico con rammarico, perché il caso in questione prevede la nostra sconfitta: l’unica chance di successo è che ritrovino sé stessi. L’ho scoperto a mie spese leggendo un libro: Libero tra le sbarre. È la storia di un vietnamita la cui vita ha tutte le caratteristiche della sconfitta: imprigionato per tredici anni, di cui nove in isolamento, privato di tutto, maltrattato, schernito, denutrito, ridotto a pelle e ossa, portato sull’orlo della pazzia, eppure mai domo. Vincitore. Dirai: vincitore perché alla fine lo liberano. No, vincitore sin dal primo giorno e in ogni istante di quei dodici anni.
In galera, come in quarantena, si vive in attesa della liberazione, proiettati al futuro, al giorno in cui ti faranno uscire. Lui no, lui rinchiuso in una buca con una presa d’aria da cui l’aria entrava mista al fango, e con il suo vomito addosso, dice: «Ho scoperto di aver un tesoro tra le mani: il momento presente». Lui, operativo sino allo sfinimento nel suo darsi agli altri quando era “fuori”, ora che è “dentro” scopre che «forse non posso fare, ma posso essere».

I suoi carcerieri non credono ai loro occhi: «Nemmeno io avrei pensato che un prigioniero potesse essere l’uomo più libero del mondo», dicono incapaci di darsi ragione del fatto che quell’uomo, su cui si accaniscono con i più efferati soprusi, non sia ancora arrivato ad odiarli. Poi lentamente prendono coscienza di qualcosa che scoprono grazie a lui, ma che non è una cosa di cui lui abbia il monopolio: «C’è qualcosa nel tuo spirito che non si può rinchiudere in prigione».
Lui non è che non s’accorga del male che gli fanno, non è che non lo patisca, ma ha una certezza: «Potranno farci soffrire, ma non riusciranno a impedirci che li perdoniamo».
Il perdono è inconcepibile. L’uomo che presume di sé, quindi la quasi totalità degli uomini di questo XXI secolo, ritiene che se una cosa non è pensabile, programmabile, pianificabile, prevedibile, non sia possibile: inconcepibile. Ma «ci sono più cose in cielo e in terra che non nella tua filosofia», il reale – sembra un paradosso – è più grande dell’immaginabile. Lui stesso, il prigioniero, dirà un giorno: «Ho scoperto una libertà che conoscevo (nel mentre si tocca la testa), ma che non avevo vissuto (e la mano si abbassa sul cuore)». Questa libertà, che è libertà dalle condizioni in cui ci tocca vivere ma non fuga da esse, che è libertà dagli schemi con cui il potere pensa tu debba reagire (occhio per occhio), nel segregato vietnamita è diventata libertà di perdono. E il perdono ha fatto breccia. Periodicamente i suoi carcerieri venivano esautorati dal compito di sorvegliarlo perché “infettati” dalla sua umanità. Anche il generale che lo ha arrestato e che per dodici anni ha cercato invano di estorcergli una confessione arriva a proporgli, in cambio dell’uscita dal carcere, di collaborare come consulente economico del governo, lo supplica di accettare. La risposta del prigioniero ha in sé tutta l’assurdità di un pensiero impensabile, se non fosse che ha anche la verità di un evento accaduto: «Mi sento felice di aver ricevuto una libertà a prova di prigionia. A cosa mi serve una libertà esteriore se, per questo, devo tradire la mia anima?».
Anche quest’uomo, su cui ci siamo accaniti come su pochi altri, vescovo negli anni della prigionia e poi cardinale, era stupito di sé stesso: «È incredibile fino a che punto possa esistere qualcuno che sia superiore alla paura». Nietzsche diceva che avrebbe creduto in Dio se i cristiani avessero avuto di più la faccia da salvati. Forse li guardava poco in faccia, o loro la giravano dall’altra parte, sicuramente non ha avuto l’occasione di vedere il sorriso di Nguyen van Thuân.
Nipote, ammettiamo la sconfitta, ma non abbatterti, la messe è molta.
Tuo affezionatissimo zio
Berlicche
Foto Ansa
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