«Non perdiamo l’occasione: serve subito l’indulto»
Il mondo delle carceri italiane era già in emergenza prima del Covid-19. «Un’emergenza che dura almeno da dieci anni», dice a tempi.it Carlo Lio, garante dei diritti dei detenuti della Regione Lombardia. Le immagini delle rivolte e delle fughe dei detenuti, i galeotti sui tetti, hanno scosso l’opinione pubblica per qualche ora, poi il tutto è ritornato nel silenzio, come sempre, purtroppo.
Ma Lio, già sindaco di Cinisello Balsamo e assessore ai Lavori pubblici in Regione Lombardia, oggi in prima linea ad occuparsi del problema, non vorrebbe che si dimenticasse tutto così in fretta, anzi, vorrebbe rilanciare. Anche perché, è notizia di ieri, c’è il primo detenuto positivo al covid-19 a San Vittore a Milano (ora si trova nell’ospedale Niguarda). In questi giorni sono risultati positivi anche altri due carcerati a Pavia e uno a Voghera.
In un’intervista a Libero, lei ha detto che occorre arrivare subito al punto: «Serve l’indulto». Lei sa che questa è una parola che fa accapponare la pelle a più d’uno in Italia. E, allora, perché l’ha pronunciata?
Le carceri italiane, come è ormai storicamente acclarato, sono sovraffollate. Sono poche, ne servirebbero di più. Se così è, ed anche prima che arrivasse il coronavirus, è chiaro che una rieducazione è difficilissima a farsi. Sebbene colpevoli – voglio ricordarlo a chi mi ha criticato dopo quell’intervista – sono e restano delle persone.
Questa è la situazione che conosciamo, ma perché lei ha parlato di indulto?
Il parlamento aveva già avviato un processo riformatore al tempo del governo Gentiloni con la riforma Orlando. Poi, per calcoli politici e per pavidità, ha fatto scadere i termini della riforma, che non è mai stata completata. Questo ha ingenerato, sia nella popolazione carceraria sia negli agenti di polizia, una grande frustrazione per l’occasione mancata.
Questo spiega le rivolte dei giorni scorsi?
Questo malessere pregresso, sommato alla notizia che sarebbe stati sospesi i colloqui ha fatto da detonatore alle proteste. Sia chiaro, sono gesti da condannare senza il minimo tentennamento e va espressa la massima solidarietà agli agenti di polizia.
Ma allora perché l’indulto?
Perché il problema non lo si risolve con dei pannicelli caldi, serve un intervento vero, costituzionalmente adeguato, che riporti serenità nei nostri penitenziari. Con la dottoressa Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, e la sua omologa Monica Lazzaroni di Brescia ci siamo confrontati e abbiamo preparato una serie di proposte riguardanti misure alternative al carcere che potrebbero essere attuate subito.
Nel decreto varato dal governo si prevede il trasferimento agli arresti domiciliari per i detenuti che hanno pene da scontare sino a 18 mesi e, qualora la pena sia superiore a 6 mesi, l’applicazione del braccialetto elettronico. Non è sufficiente?
Sono buone idee, ma il problema va affrontato in maniera complessiva e solo una misura come l’indulto può aiutarci davvero a risolvere la situazione. Oggi in Lombardia ci sono 8.547 detenuti in strutture che ne possono ospitare, al massimo, 6.199. Questo è il problema, come possiamo pensare di rieducare queste persone se nemmeno le facciamo vivere in condizioni dignitose?
Tra l’altro, alcuni di loro sono in carcere “da innocenti”.
Questa è l’altra grande anomalia: il 10/15 per cento di loro si trova in custodia cautelare. Quanti innocenti ci sono dietro le sbarre?
Crede che il ministro Alfonso Bonafede, che in questi anni ha emanato leggi non certo garantiste, possa essere sensibile al suo appello?
Non mi pare abbia la cultura e la sensibilità adeguata. Eppure potrebbe essere una rande occasione.
Cosa intende?
C’è venuto addosso uno tsunami, ma poi si può ricostruire. Perché non cogliere l’occasione per riprogettare l’intero mondo carcerario? Con la costruzione di nuove carceri, certo, ma soprattutto per avanzare leggi che rendano più umana e dignitosa la condizione dei detenuti e il mondo della giustizia in generale.
A partire dall’indulto.
Quello non è l’ultimo passo da fare, ma il primo.
Foto Ansa
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