
Non basta invocare la parità. Si riparta dall’educazione

Con un bell’articolo, Robi Ronza, ciellino della prima ora, che alla sequela di don Luigi Giussani ha respirato e assimilato per osmosi la passione per la libertà di educazione, torna ad alzare la voce sulla questione della parità scolastica, affermando che «i tempi sono maturi per l’attuazione dell’articolo 30 della Costituzione che stabilisce il dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli e che un modo c’è: il buono scuola».
Attraverso una rapida disamina del controverso percorso che il sistema di istruzione italiano ha effettuato dall’Unità ad oggi, Ronza punta il dito anche sulla contraddittorietà della Legge 62/2000, con la quale è stato riconosciuto che «il sistema nazionale di istruzione (…) è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali», senza tuttavia avere il coraggio di prevedere lo stesso trattamento economico, così da poter effettivamente garantire ad ogni istituto (e ad ogni famiglia…) le medesime condizioni di partenza.
Parità disattesa
L’impedimento si fonda, come è noto, su quanto previsto dall’articolo 33, secondo comma, della Costituzione, ossia che «Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Sull’origine e interpretazione di questo comma si sono consumati infiniti dibattiti e sono stati versati fiumi di inchiostro, giungendo anche a dimostrare che non è affatto detto che lo Stato non possa contribuire, ma la conclusione è sempre stata la stessa: negare qualsiasi aiuto economico sia alle scuole non statali sia alle famiglie dei loro scolari e studenti. E così, il diritto che l’articolo 30 della medesima Costituzione riconosce ai genitori, è rimasto solo sulla carta.
Di più: il riconoscimento dello status di paritaria alle scuole non statali, con l’estensione ad esse di numerosi obblighi burocratici e gestionali, ma senza un adeguato contributo economico, ne ha aggravato in molti casi la situazione finanziaria già precaria, portandole alla chiusura. Così, dopo alcuni anni di incremento del numero di scuole ed alunni frequentanti, successivo al varo della Legge 62, è iniziato un rapido e ininterrotto declino, tanto che, dopo aver raggiunto un picco di oltre 13 mila scuole e 1 milione e 200 mila studenti intorno all’anno 2010, in questi ultimi anni migliaia di istituti hanno chiuso e attualmente sono rimaste in attività solo 11.000 realtà con circa 770 mila studenti in totale, concentrate soprattutto al Nord.
Omologazione e centralizzazione
Nessun grido di allarme, eccettuati pochi casi, si leva però per denunciare questa situazione. Situazione della cui gravità, in realtà, pare che quasi più nessuno si renda conto. Eppure, ha ragione da vendere Robi Ronza là dove afferma: «Immaginiamoci che cosa accadrebbe (….) se ciascuno di noi fosse obbligato a fare la spesa in un certo supermercato deciso dallo Stato e non potesse scegliere che cosa comprare o non comprare, ma potesse acquistare solo a scatola chiusa. Questo è esattamente ciò che succede con la scuola statale…». Inimmaginabile, in una società come la nostra che ha fatto del culto gastronomico e della importanza della “corretta” alimentazione un vero e proprio totem… Per l’educazione invece no, nessun problema, evidentemente non interessa più.
Il fatto è che l’operazione di omologazione e centralizzazione educativa, iniziata subito dopo l’Unità d’Italia, nonostante la scalcagnata gestione da parte dei nostri governanti, ha avuto pieno successo ed è andata ormai a regime: il ruolo centrale dello Stato nella educazione/formazione è ormai dato per scontato dalla stragrande maggioranza del popolo italiano, come un dato di fatto “naturale”; persino la Chiesa, che da sempre si è occupata di educazione e istruzione (non dimentichiamo che persino le Università sono nate per iniziativa della Chiesa!) si accontenta, ormai, delle “briciole che cadono dalla tavola dei padroni” e di fatto ha accettato, con il sistema integrato della parità, di essere interna e funzionale al progetto educativo statale, con tutto ciò che ne consegue anche a livello di impostazione educativa e formativa.

Cambiare paradigma
Poco importa, ormai, il valore della “libertà di educazione”, che è stato oggetto di grandi battaglie popolari negli ultimi decenni del passato millennio. Con il varo della “legge di parità”, gli animi si sono sostanzialmente placati e la faccenda è diventata di competenza di pochi, col risultato di renderla sempre più un concetto fumoso o addirittura estraneo alla vita quotidiana della società, e persino per la maggior parte dei cristiani di nuova generazione.
Certo, esiste ancora un certo numero di famiglie che prende in considerazione l’alternativa della scuola non statale, desiderando per i propri figli un luogo che garantisca maggiore sicurezza o “qualità” di insegnamento, ed è giusto che ne abbia la possibilità come previsto dall’articolo 30 della Costituzione nonché su un diritto originario e imprescindibile dei genitori, che in quanto tali hanno la priorità assoluta a riguardo della educazione dei figli. E il buono scuola potrebbe essere davvero una soluzione percorribile. Ma la vera e urgente necessità è anche e prima di tutto un’altra: che si torni a parlare di educazione, a domandarsi che cosa vuole dire educare e a cosa stiamo educando, perché i nostri giovani sono allo sbando e a sanare la situazione non basta certo il caleidoscopio di educazioni che i ministri di turno delegano alla scuola (l’ultima in arrivo è “l’educazione al rispetto”), anzi rischiano di aggravare il problema spezzettando la persona in mille frammenti.
Come, del resto, non basterebbe una piena parità scolastica a garantire una buona educazione/formazione dei nostri figli, perché non è davvero chiaro, oggi, cosa sia una educazione/istruzione “di qualità”, spesso e volentieri confusa con gli esiti delle indagini internazionali sui sistemi di istruzione o sulla capacità di incrementare il Pil nazionale, riducendo la persona ad un ingranaggio del sistema economico e produttivo o alimentando la cultura del successo professionale e mondano; nemmeno, ahimè, per tante scuole paritarie (e sedicenti cattoliche), sempre più appiattite sul modello della statale e divenute anch’esse cassa di risonanza delle parole d’ordine propagate dal mainstream culturale.
Una risposta adeguata
Non basta più, dunque, invocare la parità. Occorre invece tornare – tutti – alle sorgenti delle ragioni per cui la Chiesa e innumerevoli educatori, come ad esempio don Giussani, hanno sfidato il mondo e lottato per la libertà di educazione. Occorre tornare a “esplorare” la densità e profondità della natura dell’uomo, il mistero del suo essere e del suo destino, perché l’educazione (e, con essa, la formazione scolastica) è questione che riguarda la vera natura dell’uomo, lo scopo del suo vivere e quindi il suo destino ultimo, come mirabilmente spiegò papa Pio XI nell’Enciclica Divini Illius Magistri del 1929:
«l’educazione consiste essenzialmente nella formazione dell’uomo, quale egli deve essere e come deve comportarsi in questa vita terrena per conseguire il fine sublime per il quale fu creato», ed è dunque «di suprema importanza non errare nell’educazione, e non errare nella direzione verso il fine ultimo con il quale tutta l’opera dell’educazione è intimamente e necessariamente connessa».
Qualsiasi percorso scolastico non può prescindere dall’interrogarsi su questo e dal tentare di offrire una risposta adeguata, se vuole davvero compiere la missione per cui viene avviato.
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