
«Non aggiungere giorni alla vita, bensì più vita ai giorni»

In queste settimane si sono svolte le audizioni sulla proposta di legge di iniziativa popolare dell’Associazione Luca Coscioni sul suicidio medicalmente assistito in Regione Lombardia. Tra le altre proponiamo ai nostri lettori l’intervento di Elena Polesana, infermiera di cure palliative domiciliari di un ospedale milanese. La sua testimonianza chiarisce il senso dell’approccio integrale di Cicely Saunders al problema del dolore affrontato in tutte le sue dimensioni (fisica, psichica, sociale, spirituale) che la letteratura scientifica ha dimostrato essere più efficace ed efficiente sotto ogni profilo.
Vi ringrazio moltissimo per avermi dato l’opportunità di spiegare nella pratica cosa sono le cure palliative.
Il primo contatto che si ha con il nostro servizio è un colloquio che viene fatto in ospedale con i parenti e, se lo desidera, il paziente stesso. I pazienti vengono inviati a noi grazie ai diversi reparti specialisti (dialisi, neurologia, medicina, oncologia, cardiologia ecc), a volte sono i pazienti stessi a “scoprirci”. C’è chi arriva a noi grazie al passaparola (nel quartiere di Quarto Oggiaro per esempio ci sono complessi residenziali in cui siamo ben conosciuti: i parenti arrivano con un foglietto di carta con su scritto i nomi del medico e dell’infermiere che hanno seguito il vicino di casa), meno spesso attraverso i medici di medicina generale. Sicuramente dobbiamo migliorare nel farci conoscere anche da loro!
Dopo questo primo incontro, il medico e l’infermiere si recano a casa del paziente e con il suo consenso iniziano le cure e l’avventura di questo ultimo periodo che abbiamo visto essere assistenza dopo assistenza un’opportunità imperdibile di amore per il paziente e la sua famiglia.
All’attivazione gli spieghiamo che ogni settimana riceverà come minimo due visite del medico e due dell’infermiere. Se ne avrà bisogno ci sono altre figure professionali nella nostra équipe che potranno assisterlo (come l’oss, lo psicologo, il fisioterapista, l’assistente sociale). Il loro medico e infermiere di riferimento sono contattabili al telefono dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 18, mentre di notte, nei weekend e festività c’è il numero delle reperibilità a cui risponde un medico o un infermiere dell’équipe in modo che non siano mai soli. Il servizio copre 24 ore su 24, 7 giorni su 7, 365 giorni l’anno.
Le cure sono a 360°. Prima di tutto bisogna affrontare e alleviare i sintomi fisici ovviamente, perché è esperienza comune a tutti noi che quando si è ammalati anche solo per una brutta influenza non ci si sente se stessi, si è appesantiti, non si riesce a relazionarsi con la realtà in modo pieno, si perde anche interesse in quel che ci circonda. Quindi togliere il dolore e alleviare i sintomi fisici è la nostra priorità.
In questo ha un ruolo fondamentalmente l’educazione sanitaria dei parenti o dei caregiver. Insegnare loro come prendersi cura del paziente è di enorme aiuto, prima di tutto perché noi non stiamo lì a casa tutto giorno (l’assistenza alla persona è assolta dai caregiver), in secondo luogo perché conoscere cosa può succede e come è possibile rispondere dà a loro una grande sicurezza: non si sentono più in balia di qualcosa che succede.
Vi faccio un esempio: qualche settimana fa mi hanno chiamato alle 18:30, mentre ero reperibile, la figlia e la compagna di un paziente che non seguivo io. Erano preoccupate perché vedevano le unghie di Giovanni nere. Abbiamo fatto una video chiamata e il paziente, che già da quella mattina era sedato con sedazione profonda, era entrato in agonia. Inizio a tranquillizzarle, spiegando loro che hanno fatto benissimo a chiamarmi, e di non preoccuparsi per le unghie scure perché quando si entra in agonia è normale che il corpo si occupi meno della circolazione di mani, piedi e gambe per concentrare le forze residue sugli organi più importanti, come il cuore e i polmoni.
Chiedo anche loro di osservare il respiro di Giovanni: non è più condotto dal diaframma che fa muovere la pancia, ma il suo respiro ormai è sostenuto dai muscoli del collo e del torace (quelli che usiamo per fare un respirone quando abbiamo più bisogno di aria, dopo una corsa o quando dobbiamo fare uno sbadiglio). Questi muscoli non sono usati normalmente per respirare e quindi a un certo punto si esauriscono, si fermano e poi riprendono a funzionare. Queste sono le apnee e non si possono correggere, possono essere sempre più frequenti, oppure sempre più lunghe fino a quando il respiro non riprende più. Poi gli chiedo di muovere il braccio di Giovanni e spiego loro che se è morbido significa che è ben sedato. Dico anche loro di chiamarmi se vedono la fronte corrugarsi, oppure se muove le braccia o le mani, così possiamo approfondire la sedazione.
A questo punto le due donne mi fanno una domanda, una domanda bellissima che ci viene fatta spesso dai parenti: mi chiedono se possono toccarlo oppure se devono lasciarlo stare. Rispondo che non devono avere paura di accarezzarlo e parlargli, anzi! Il tatto e la voce dei cari è qualcosa di talmente primordiale, come nei neonati, che non ha bisogno di passare dall’elaborazione del pensiero per arrivare a lui.
Do loro un appuntamento per un’altra videochiamata verso le 22 così possiamo rifare un punto prima della notte, ma se hanno bisogno prima di non esitare a chiamarmi. Molte volte capita di chiamare le famiglie di alcuni malati la sera prima che cominci la notte che fa spesso paura: li rassicura sapere che non sono soli e che ci occupiamo di loro.
Ma noi non siamo solo un corpo! Saunders diceva “La sofferenza è solo insopportabile quando nessuno si prende cura” e ancora “Non aggiungere giorni alla vita, bensì più vita ai giorni”. È questa la sfida delle cure palliative e la si accoglie con la presenza costante di figure professionali (spesso per esempio i pazienti non possono più fare le cose che facevano prima e si sentono vuoti, inutili e annoiati. Lo psicologo li aiuta a tirare nuovamente fuori i loro interessi e trovare nuove risorse per dedicarvisi) e facendo spazio a una grande varietà di possibilità, come la preziosa compagnia dei volontari, la musicoterapia, il servizio estetico con estetiste appositamente formate, la pet therapy… Quest’ultima è sorprendente: i pazienti possono da una parte allenare le capacità residue per esempio giocando con i cani addestrati ma anche accarezzando questi cani stupendi che si fanno coccolare fino ad addormentarsi i pazienti entrano in una condizione di calma che spesso favorisce la comunicazione con l’operatore, si mettono a raccontare di loro con più facilità di quello che stanno vivendo.
Questi “servizi extra” sono a costo zero per la Regione perché le cure palliative per legge hanno l’obbligo per l’accreditamento di avere alle spalle una Fondazione che attraverso donazioni e fundraising permette di dare spazio a questi servizi preziosissimi e a rispondere anche puntualmente ai bisogni della singola famiglia. Grazie alla nostra Fondazione per esempio abbiamo pagato un materasso singolo per il letto articolato che l’Ats ha fornito a un malato terminale che non versava in buone condizioni economiche, padre di quattro figli e accudito dalla moglie. Grazie a questo modello abbiamo la possibilità di implementare una risposta sempre più efficace per rispondere agli innumerevoli bisogni di questi nostri pazienti e delle loro famiglie.
Ho lavorato anche per diversi anni come infermiera di assistenza domiciliare integrata e ho visto tutta la cronicità di giovani malati che grida un abbandono. Un abbandono prima di tutto sociale (spesso sono ragazzi tetraplegici di cui si prendono cura le madri e non hanno più un tessuto sociale con cui vivere la vita!). E vivevo l’enorme difficoltà da parte dell’assistenza domiciliare integrata di far fronte ai bisogni sanitari di questi malati cronici.
Io credo fortemente che questo modello delle cure palliative sia da esportare in tutta l’assistenza territoriale, a partire dall’assistenza domiciliare integrata che intercetta tutti quei pazienti cronici non terminali provati da malattie invalidanti e che necessitano di un supporto sanitario e sociale a 360° come avviene nelle cure palliative. Io vi invito a implementare la diffusione delle cure palliative e ampliare ad altre realtà territoriali questo modello sostenibile!
Per concludere volevo riportarvi una frase che ci ha detto una studentessa di infermieristica alla fine del suo tirocinio qualche mese fa: “Voi non allungate la vita, ma date più vita alle giornate. Come una piantina avvizzita, date acqua e loro rivivono”.
Alla fine dell’audizione è stato chiesto a Polesana di chiarire la durata dell’agonia. Ecco la sua risposta:
È una domanda che anche i parenti ci fanno spesso. Noi non abbiamo la sfera di cristallo e non sappiamo quanto durerà l’agonia per quella persona, ma sappiamo che si tratta di un tempo importantissimo, che per qualcuno può durare ore, per qualcun altro giorni, anche una settimana. Un tempo durante il quale i parenti possono iniziare ad elaborare il lutto, cosa che diventa molto faticosa quando una persona muore all’improvviso. Anche in cure palliative abbiamo delle emergenze e in alcuni casi il malato viene a mancare inaspettatamente per un evento acuto. Noi vediamo che questo è un vissuto più traumatico per i parenti. Il distacco lento e graduale del decorso dell’agonia aiuta tantissimo i familiari nell’elaborazione non patologica del lutto. L’on-off del suicidio assistito recide un tempo prezioso.
Vi leggo un pezzettino piccolissimo che ho scritto su un paziente che abbiamo seguito molti anni fa – seguiamo non so quante persone e a volte scriviamo qualche appunto per non dimenticarcelo. L’ho soprannominato “l’uomo cattivo” perché si vedeva che era un padre-padrone. Era sempre, perennemente, rabbioso. Una volta, parlando con suo figlio che era tutto tatuato da capo a piedi, gli avevo chiesto come mai aveva il braccio completamente tatuato di nero, solo di nero. Lui mi aveva risposto: “Questo è tutto il male che mio padre mi ha fatto”. Questo è quello che ho scritto: “Da lì a pochi giorni Giorgio peggiora drasticamente, inizia a farsi accudire dalla moglie che prima non riusciva nemmeno a toccarlo. Quest’uomo non si lavava più. A un certo punto abbiamo dovuto sedarlo. Quando entravamo in camera sua, nei giorni dell’agonia, lui sembrava un re, pulito e profumato nel letto, lavato da sua moglie e suo figlio. Muore circondato dalla moglie e dal figlio tatuato e dall’altro figlio che non avevamo mai visto prima. I loro volti erano raggianti di gioia, perché finalmente paghi di aver toccato quell’uomo, averlo amato e essersi presi cura di lui. Avevano gli occhi di bambini”.
Non pensiamo che è tempo buttato quello dell’agonia. Ogni storia accompagnata fino alla fine diventa veramente un tempo prezioso.
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